mercoledì 30 dicembre 2009
mercoledì 23 dicembre 2009
mercoledì 16 dicembre 2009
mercoledì 9 dicembre 2009
99ma puntata. Verde sbiadito, anzi verde sporco
giovedì 3 dicembre 2009
giovedì 26 novembre 2009
mercoledì 18 novembre 2009
96.ma puntata. A che punto è la notte?
mercoledì 4 novembre 2009
95ma puntata. Dalla green economy al social housing?
mercoledì 28 ottobre 2009
94ma puntata. Siamo fuori dal tunnel... del divertimento!
mercoledì 21 ottobre 2009
mercoledì 14 ottobre 2009
92ma puntata. Tramonta il Pil
mercoledì 7 ottobre 2009
91ma puntata. Casa, ecco il piano B
Anche il Governo alla fine si è accorto che il piano casa – così come formulato originariamente "Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche" e che potrebbe essere meglio etichettato come “piano villette” – risponde più alla necessità di procacciare nuove commesse alle piccole e medie imprese edili colpite dalla crisi che all’esigenza impellente di offrire a un numero crescente di famiglie una risposta al disagio abitativo, con tutte le sfumature che esso rappresenta ma che senza dubbio trascende dalla voglia di veranda o della stanza aggiuntiva da parte delle famiglie italiane. Ed è per questo motivo che, nell’estate scorsa e dopo che la maggioranza delle Regioni aveva chiuso la partita sul proprio piano casa, il Governo ha varato un ambizioso “Piano straordinario per l'edilizia residenziale pubblica” (Dcpm del 16 luglio 2009) per affrontare in maniera organica il disagio abitativo, dalla difficoltà di accesso a valori immobiliari di acquisto e di locazione sempre più importanti al degrado derivante da fenomeni di alta tensione abitativa. Il nuovo piano prevede di offrire 100mila nuovi alloggi sociali in affitto a canone moderato a quella fascia di famiglie (anziani, giovani coppie, immigrati regolari, etc) non eccessivamente povere da rientrare tra gli indigenti e non sufficientemente solide economicamente per poter corrispondere un canone libero di mercato. Senza dubbio l’iniziativa rappresenta un forte impegno da parte del Governo per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato nell’ultimo decennio sull’impegno pubblico nel social housing, ma le perplessità sono rappresentate dal finanziamento delle iniziative – vista la scarsità delle risorse pubbliche e l’impegno di parte di esse nelle leggi regionali già varate per “piano villette”; dalla capacità di coinvolgimento di soggetti privati – fondazioni, cooperative, enti non profit, fondi immobiliari, etc – in iniziative di business sociale che in molti casi non consentono un ritorno dall’investimento più elevato della dinamica inflattiva; e, soprattutto, dall’orizzonte temporale di almeno medio periodo (5 anni previsti sulla carta) entro cui si vedranno concretamente realizzati gli obiettivi dell’iniziativa.
giovedì 24 settembre 2009
giovedì 17 settembre 2009
giovedì 10 settembre 2009
88ma puntata. Ripresa sì, anzi no
mercoledì 24 giugno 2009
87ma puntata. Erbacce tra semi di ripresa
Gesù disse, Il regno del Padre è come un uomo che ha dei semi. Il suo nemico di notte gli ha piantato erbacce fra i semi. L'uomo non ha voluto che i braccianti gli strappassero le erbacce, ma ha detto loro, 'No, altrimenti per strappare le erbacce potreste finire per strappare anche il grano.' Poiché il giorno del raccolto le erbacce saranno molte, e saranno strappate e bruciate.
venerdì 12 giugno 2009
86ma puntata. Democrazia partecipativa (2)
mercoledì 3 giugno 2009
85ma puntata. Democrazia partecipativa (1)
mercoledì 27 maggio 2009
84ma puntata. Finanza islamica
mercoledì 20 maggio 2009
83ma puntata. Diseguaglianze
giovedì 14 maggio 2009
82ma puntata. Crisi sincronica, ripresa diacronica?
[Marco Marcatili, da Agi Energia del 12 maggio 2009]
“Non saremo più come prima” è diventato ormai un adagio stancante e i dibattiti che ancora elucubrano sulle cause della crisi, dopo quasi due anni di tormenti finanziari ed economici, rischiano di avvalorare l’idea di George Bernard Show secondo cui “se tutti gli economisti fossero stesi un accanto all’altro, non raggiungerebbero una conclusione”. Negli Stati Uniti è stata proclamata la morte del liberismo e il fallimento delle policy del Washington Consensus; in Europa si discute sulla miopia di una politica monetaria che a fronte di un -1% di inflazione toglie all’area Euro un potenziale di circa 2% di crescita; in Oriente sembra non essere più sostenibile un’economia sovrana che raccoglie ingenti surplus (fiscali, commerciali e petroliferi) dall’Occidente e li rimanda indietro – attraverso partecipazioni dei fondi sovrani, sottoscrizione debito e aumento delle riserve in valuta estera – spesso sulla base di accordi politici sottobanco; ma cosa ci sarà dopo la crisi?
Nonostante non sia possibile valutare ad oggi se i piani di stimolo, fiscali e monetari, messi in campo dagli Stati Uniti, Europa e Cina, stiano andando nella giusta direzione, è opportuno evidenziare i principali effetti della crisi sulle variabili macroeconomiche e mostrare quei Paesi meno “attrezzati” istituzionalmente (efficacia della regolamentazione, livello di welfare, dimensionamento dei capitali collettivi) a resistere all’invasione di titoli tossici e al conseguente congelamento della liquidità, ma soprattutto agli squilibri creati nell’economia reale.
Sorprende come per la prima volta dagli anni ’70 questa crisi risulti non solo più virulenta in termini di effetti negativi sulla crescita, ma anche quella più sincronizzata tra Paesi in termini di riduzione della spesa privata per consumi e investimenti. Stando agli ultimi dati diffusi dall’Fmi, l’acuirsi della crisi ha provocato dal 2007 ad oggi un rilevante calo degli investimenti nei Paesi del G7 tra il 6% (Germania) e il 22% (Stati Uniti e Regno Unito). Solo la Francia e il Giappone vedranno salire nel prossimo anno la quota degli investimenti lordi sul Pil – dal 19,9% del 2009 al 20,3% del 2010 in Francia e dal 21,9% al 22% in Giappone – che consentirà loro di invertire la fase recessiva con un tasso di crescita reale atteso per il 2010 rispettivamente dello 0,28% e 0,35%. Il vuoto lasciato dal calo della domanda dei Paesi industrializzati ha colpito anche i Paesi emergenti non aiutati da un dinamismo della domanda domestica, ma nello stesso tempo non drogati da un’eccessiva accumulazione di debito pubblico e privato. È la Cina a registrare il maggior rallentamento della crescita (dal +13% nel 2007 al +6,5% stimato per il 2009), che però può contare su un più ampio margine di manovra deficit spending, mentre Brasile e India, meno esposti al crack finanziario mondiale, hanno mostrato una buona tenuta con una frenata di Pil di circa cinque punti percentuali.
Inoltre, a preoccupare tutto l’Occidente sono i due fardelli del debito pubblico e della disoccupazione creati sin dai primi sconquassi sul mercato finanziario nell’estate 2007 e in soli due anni. Sia pur in modo differenziato in Europa – con l’eccezione di Svezia, Danimarca e Finlandia – i deficit pubblici sono quasi triplicati (dall’8,6% della Spagna al 12% dell’Irlanda) facendo saltare l’intero impianto di stabilità di Maastrict e portando l’indebitamento pubblico a livelli preoccupanti nel 2010 (dal 70,6% della Francia al 117,5% dell’Italia). Anche la disoccupazione rischia di diventare una variabile incandescente perché in quei Paesi dove non si abilitano le famiglie ad accedere agli strumenti di protezione pubblica e integrazione reddituale lo scoppio delle diseguaglianze interne costituirebbero una zavorra per cogliere la ripresa. Da sottolineare come l’Italia partendo dal più basso tasso di disoccupazione nell’area euro (6,1% nel 2007) supererà nel 2010 un tasso del 10% arrivando ai livelli di Francia e Germania; ben peggiore è lo scenario statunitense post-crisi con un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (4,6% del 2007 al 10,1% atteso nel 2010).
Se da un lato i processi di globalizzazione del commercio e della finanza mondiale hanno sincronizzato gli squilibri reali e gli effetti discorsivi di questa crisi, dall’altro la speranza dei Paesi avanzati non deve essere riposta nella ripresa degli eccessi americani quanto piuttosto in una nuova fase di sviluppo dei Paesi emergenti. Anche se le disparità stanno aumentando vertiginosamente in questi Paesi, ogni anno milioni di persone fuoriescono dalla povertà assoluta e possono dare vita ad una rilevante crescita dei consumi. Essendo stati più esclusi dalla finanza mondiale e non avendo accumulato debito, i Bric hanno oggi le carte in regola per ripartire subito e dar vita ad una ripresa diacronica vantaggiosa per tutti, a patto però gli Stati Uniti accettino un deleveraging privato, l’Europa riduca il suo debito pubblico e la Cina aumenti le sue quote di consumo ad oggi ferme a un terzo del reddito nazionale.
mercoledì 6 maggio 2009
81ma puntata. La Commissione Europea gioca al lotto
mercoledì 29 aprile 2009
80ma puntata. A braccia conserte
mercoledì 22 aprile 2009
79ma puntata. Povertà dei poveri e povertà dei ricchi
venerdì 17 aprile 2009
78ma puntata. Chi può darci una "mano"?
Se da un lato è evidente che l’attenzione degli economisti si è sempre più spostata verso i fattori immateriali della crescita e che il capitale fisico non è una condizione sufficiente allo sviluppo, dall’altro risulta complesso definire politiche pubbliche locali condivise con tutti gli attori dello sviluppo, libere da qualsiasi condizionamento di breve termine (competizioni elettorali) e soprattutto efficaci nell’accrescere quei capitali (economico, intellettuale, sociale, culturale, istituzionale) in grado di rischiare davvero lo sviluppo di un territorio inteso come crescita compatibile con gli obiettivi economici, ambientali e sociali.
L’impressione è che nelle Marche molto sia stato fatto, ma è fuor di dubbio che alcune politiche non hanno sortito gli effetti desiderati. Solo per fare alcuni esempi, recentemente Banca d’Italia ha decretato come “inefficaci” le politiche industriali attuate nell’ultimo decennio in Italia e, in particolare, nelle regioni ad alta vocazione manifatturiera come le Marche; sono gli scarsi investimenti di private equity nelle piccole e medie imprese della regione (5 milioni di euro nel 2008 contro i 60 milioni dell’Umbria e i 70 della Toscana) a ricordare che c’è stata poca attenzione alle condizioni socio-economiche territoriali che migliorano il livello di attrazione degli investitori istituzionali; e infine la bassa incisività del Piano Energetico Ambientale Regionale (Pear), nonostante fosse stato uno dei primi approvati in Italia, fa essere questa regione ancora il fanalino di coda del Centro-Nord nelle pratiche di risparmio energetico e nello sfruttamento delle fonti rinnovabili. È lo stesso segretario generale regionale Stefano Mastrovincenzo, nella sua relazione congressuale “Noi vivremo del lavoro”, a fare un lucido quadro sull’attuale stato di salute della regione Marche, «ieri la terra dello sviluppo senza fratture, oggi una regione in sospensione: la crisi sembra non farla precipitare ma nello stesso tempo viviamo la sensazione di andare giù. Restiamo una terra di marca – aggiunge poi il segretario Mastrovincenzo – una terra di confine, ma rischiamo di essere anche una terra di passaggio». Già più di due secoli fa era lo stesso Adam Smith ad insistere che un ordine sociale autenticamente liberale aveva bisogno di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una – quella di cui tutti parlano spesso anche a sproposito per una carente capacità interpretativa – e visibile l’altra – quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, diremmo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso il monopolio o l’oligarchia degli interessi economici. Non si tratta di discutere sul “che cosa fare” per il rilancio della società marchigiana, piuttosto sul “chi lo fa” e sul “come farlo” si gioca la sfida futura. Fino ad oggi siamo rimasti incantati sulla ricchezza accumulata dalle Marche con gran fatica e per lungo tempo, lo sviluppo di domani può essere attuato solo disegnando un efficace modello di governance multilivello aperto però ai valori della cooperazione fra i diversi livelli amministrativi (Regioni, Comuni, Province, Unione dei Comuni, etc) e a quelli del rischio e della responsabilità collettiva.
giovedì 9 aprile 2009
77ma puntata. Fondi sovrani: sciacalli o redentori?
Primo, che cosa sono i fondi sovrani? Sono fondi di investimento di proprietà statale e utilizzano i loro surplus fiscali o commerciali per investire in strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, etc) denominati in valuta straniera. La caratteristica principale di questi fondi è di investire in un orizzonte temporale di lungo periodo e di andare alla ricerca di rendimenti elevati associati a un grado di rischio tollerante. Di solito originano in Paesi non democratici e il loro grado di trasparenza è inversamente proporzionale al livello di sviluppo istituzionale del Paese stesso. I primi dieci fondi sovrani al mondo hanno investito risorse pari al 2,5 mila miliardi di dollari, nel complesso si può stimare che tutti i fondi sovrani attivi al mondo provenienti per lo più dall’Asia e dal Medio Oriente arrivino a detenere complessivamente oltre il 3,2 mila miliardi di dollari. Tali risorse finanziarie risultano modeste se comparate a quelle del mondo bancario o assicurativo, ma sono concentrate in mano a circa 20 soggetti nel mondo che decidono le sorti delle economie occidentali spesso sulla base di accordi politici sottobanco.
Secondo, dopo avere investito massicciamente negli Stati Uniti e in Europa i fondi sovrani sono davvero in crisi? Nonostante le perdite subite a causa dei massicci ingressi nei colossi finanziari statunitensi – si può stimare ad esempio che dei 900 miliardi di dollari investiti il fondo sovrano di Abu Dabi ne abbia persi già un terzo con Citigroup – il calo del prezzo del petrolio da 147 dollari (luglio 2008) a 50 (aprile 2009) – che alimenta oltre il 60% delle riserve complessive di questi fondi – e il calo delle esportazioni cinesi – da cui origina un terzo delle riserve – il rapporto Preqin 2009 rivela come a livello aggregato gli investimenti dei fondi sovrani siano cresciuti del 60%, dai 2 trilioni di dollari del 2007 ai 3,2 trilioni ad oggi impiegati. Certamente i fondi stessi hanno risentito della forte turbolenza finanziaria internazionale accumulando considerevoli perdite dovute alla forti svalutazioni azionarie e obbligazionarie, tuttavia nel corso dei dodici mesi precedenti il numero di veicoli istituiti a livello statale non sono diminuiti. Facendo parlare i numeri, dunque, non è possibile parlare di crisi vera e propria per i fondi sovrani.
Infine, ma non per ultimo, quale sarà il loro ruolo nell’economia mondiale? Fino ad oggi la strada perseguita dai fondi sovrani è stata duplice: da un lato investire le risorse, spesso create in Paesi non democratici, a vantaggio dei Paesi sviluppati in cambio di protezioni (ad esempio militari soprattutto nel caso degli Stati Uniti); dall’altro confidare nella finanza come unico segmento di investimento capace di far registrare un ritorno in termini di plusvalenza molto elevato a prescindere dal rischio. Tutti i fondi sovrani hanno risentito favorevolmente di un approccio semi-liberista da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, solo in Francia e Germania è stato possibile apprezzare rispettivamente nel 2005 e nel 2008 una reazione legislativa per sottoporre ad autorizzazione del governo le acquisizioni da parte di investitori al di fuori dell’Europa che comportino un ingresso rilevante nei settori considerati sensibili a livello nazionale.
Il ruolo dei fondi sovrani sull’economia mondiale sta però cambiando enormemente. Le risorse finanziarie accumulate mediante contributi fiscali o pensionistici (caso Singapore e Norvegia) , petrolio o gas (caso Emirati Arabi e Russi), ed esportazioni (caso Cina) verranno destinate ai Paesi occidentali solo attraverso solidi progetti di investimento industriali a lungo termine. Inoltre, rispetto alle operazioni all’estero verranno maggiormente privilegiati gli investimenti domestici a sostegno delle opere infrastrutturali (nei paesi in via di sviluppo) e del rilancio dei settori produttivi (nei paesi considerati sviluppati). A tal proposito il governo francese ha istituito nell’ottobre 2008 un fondo sovrano strategico da 20 miliardi di euro per sostenere le imprese nazionali colpite dalla crisi mondiale e per proteggerle da eventuali atti di sciacallaggio. Un futuro da redentori?
mercoledì 1 aprile 2009
76ma puntata. Allarme giovani
venerdì 20 marzo 2009
75ma puntata. Tranelli cognitivi
mercoledì 11 marzo 2009
74ma puntata. Nuovo scenario socio-economico
giovedì 5 marzo 2009
73ma puntata. Metodo per discutere di nucleare
mercoledì 25 febbraio 2009
72ma puntata. L'economia brucia più della borsa
giovedì 19 febbraio 2009
71ma puntata. Antiretorica sulla crisi
mercoledì 11 febbraio 2009
70ma puntata. Sinking island
giovedì 5 febbraio 2009
69ma puntata. Dragone senza ali
Nel 2007 l'ammontare della ricchezza prodotta dal Dragone è stato pari a 25.700 miliardi di yuan - circa 3.500 miliardi di dollari, ovvero 2.700 miliardi di euro, circa il doppio dei 1.500 miliardi di euro di Pil italiano. Queste numeri dicono che la crescita economica – ricordiamo che intendiamo solo beni materiali, nel Pil vengono esclusi i beni relazionali e ambientali – si è attestata a +13% rispetto all'anno precedente, dato superiore all’11,9% stimato dalle statistiche ufficiali diffuse dal governo di Pechino. Tale valore rappresenta la performance più forte del Dragone dal 1994. I balzi in avanti della Cina sul fronte economico sono stati innescati dopo le profonde riforme lanciate nel 1979 dallo storico leader Deng Xiaoping. Allora la sua economia valeva appena 300 miliardi di dollari, meno di un decimo del dato 2007.
Sul piano dei confronti internazionali è avvenuto il sorpasso storico della Cina sulla Germania, il cui ammontare del Pil era pari a 3.300 miliardi di dollari nel 2007. Il Dragone sale così al terzo posto tra le maggiori economie mondiali. Se per scalare un altro gradino, scalzando il Giappone (4.400 miliardi di dollari nel 2007), potrebbero bastare 5 anni – a seconda di come prosegue la congiuntura economica internazionale – un eventuale sorpasso sugli Usa (13.800 miliardi di dollari nel 2007) avverrebbe in 30 anni. Sui dati pro-capite – quelli in cui il valore di un'economia viene diviso per l'intera popolazione – la Cina resta evidentemente molto lontana da qualsiasi Paese avanzato. A ognuno dei circa 85 milioni di tedeschi corrispondono 38.800 dollari sul 2007, mentre diluito per 1 miliardi e 300 milioni di cinesi il Pil 2007 si riduce ad appena 2.800 dollari a testa. Secondo alcuni economisti si potrà colmare tale gap solo con un orizzonte temporale superiore a 20 anni.
Finora il Dragone asiatico ha volato senza ali con un immenso bacino di forza lavoro, ma scontando una bassa produttività. Da quando le dotazioni del paese sono migliorate, le macchine si sono accoppiate alle braccia, la Cina è diventata un vero Dragone. È automatico scalare le classifiche quando si è i primi produttori mondiali di acciaio e di prodotti agricoli. Quando la supremazia riguarderà l'elettronica, la cantieristica, l'automotive, l'apice sarà raggiunto. C'è da sperare che per quel tempo la Cina sia stata finalmente invitata al G8.
Attualmente, però, la principale preoccupazione del governo cinese è di mantenere il più possibile intatta questa vigorosa crescita in un contesto di pesantissimo rallentamento globale e recessione nei paesi industrializzati che sono sbocchi chiave per il suo enorme export. Perché? Per un Paese in via di sviluppo la crescita è una conditio sine qua non per migliorare la qualità della vita e far uscire dalla povertà milioni di famiglie. Diverso è il caso dell’Occidente dove la qualità della vita si è persa con l’aumentare dei soli beni materiali. La maggior parte del miliardo e trecento milioni di cittadini cinesi oggi restano poveri e Pechino considera la crescita un fattore cruciale per combattere la povertà. Secondo alcune stime, comunque di stampo governativo, la crescita del Pil nel 2008 rallenterà a un +9% e nel 2009 non supererà il 6% (in Italia da almeno un lustro non registriamo crescite superiori all’1%). Temendo la crescita, Pechino ha già varato il più massiccio piano a livello mondiale di sostegno all'economia pari a 4.000 miliardi di yuan, ovvero 445 miliardi di euro, più consistente di quanto mobilitato dagli Stati Uniti e circa undici volte delle risorse annunciate qualche giorno fa dal premier italiano. Queste risorse serviranno essenzialmente per sostenere la domanda di auto, per approvare alcune agevolazioni fiscali sull’immobiliare residenziale e per aiutare il settore siderurgico.
mercoledì 28 gennaio 2009
68ma puntata. "Maastricht ambientale"
C’è chi parla di pacchetto su clima ed energia, chi di intesa sull’ambiente, chi di compromesso sull’economia verde. Ma quello approvato il 17 dicembre scorso dal Parlamento Europeo è o no un vero e proprio trattato ambientale alla “Maastricht”? Così come le regole stabilite dal trattato di Maastricht potrebbero diventare banali e costose formule politiche durante i periodi di burrasca economica, anche la formula commerciale “20-20-20” sull’ambiente e l’energia rischia di diventare una velleità soprattutto quando è ormai riconosciuto dai tecnici che l’Italia non riuscirà a portare a termine gli impegni presi (primo tra tutti ridurre del 6,5% le emissioni di gas serra entro il 2012) e che il costo per raggiungerli sarebbe pari a quattro volte le risorse stanziate dal Governo per le famiglie in difficoltà (circa 4 miliardi) o due volte la cifra richiesta in queste settimane da Confindustria per non chiudere i principali cantieri delle opere pubbliche infrastrutturali (circa 8 miliardi).
Non occorre schierarsi dalla parte degli ambientalisti o degli scettici per capire che è necessario svincolarsi progressivamente dall’uso dei combustibili fossili e ottenere energia da altre fonti. Non solo per ragioni equitative (nei confronti delle generazioni future), ma anche economiche (l’ambiente può trasformarsi in un vero e proprio comparto industriale) e sociali (solo con un diverso schema di sfruttamento delle risorse energetiche i 2,7 miliardi di persone, attualmente sprovvisti di energia elettrica, potranno aumentare la qualità della vita). Se il “dove arrivare” è abbastanza condiviso, è possibile entrare nel merito del “come arrivarci” deciso il mese scorso a Bruxelles. Come è noto, il pacchetto “20-20-20” si basa su uno sforzo comune, e nello stesso tempo differenziato per Paesi, su tre linee di azione con obiettivi quantitativi.
Il primo attiene all’efficienza energetica e l’impegno è quello di ridurre del 20% i consumi di energia entro il 2020. Tutti i documenti presentati dall’Unione Europea sostengono che l’aumento di efficienza possibile è anche superiore al 20% e che il raggiungimento di tale obiettivo non comporta un aumento dei costi totali di fornitura dei servizi energetici. Basta però pensare che nel nostro Paese circa il 65% dei consumi dell’energia riguardano il settore industriale per sollevare alcune perplessità: quali imprese, dopo 18 mesi di crisi, accetterebbero di investire di più oggi per risparmiare nell’acquisto dell’energia domani? Quali imprese accetterebbero di sostituire degli impianti non efficienti, ma non ancora obsoleti, se non hanno nulla da guadagnarci?
Il secondo obiettivo prevede di aumentare il contributo delle fonti rinnovabili al 20% dei consumi finali nel 2020. La discussione su questo punto tra i vari Paesi europei è stata vivace e ne è scaturito il punto debole: nella ripartizione dell’obiettivo ciascun Stato membro mette in luce i maggiori costi che sosterrebbero in dodici anni per raggiungerlo; tali costi dipendono tecnicamente dalla diverse curve di offerta di energia rinnovabile che ciascun Paese è in grado di implementare, ma pochi Paesi conoscono davvero bene questa curva e soprattutto gli ostacoli di natura extra-economica per attuarla. L’Italia ha ottenuto un obiettivo inferiore a quello medio europeo e precisamente pari al 17%. In molti non hanno accettato l’idea del ribasso italiano su un obiettivo socialmente desiderabile, ma è da sottolineare come il consumatore italiano ha già speso molto per l’elettricità da fonti rinnovabili (e assimilate) con uno sviluppo di tale industria di gran lunga inferiore alla Danimarca, Germania o Spagna.
Il terzo obiettivo, infine, consiste nel ridurre del 20% le emissioni dei gas inquinanti, il più noto fra tutti è la Co2. Anche in questo caso l’obiettivo quantitativo andrebbe fissato in base alle curve dei costi marginali di riduzione delle emissioni di ciascun Paese, ma nessuno le conosce bene. Cercare di ottenere un obbligo di riduzione minore possibile non vuol dire sminuire l’obiettivo, ma semplicemente salvaguardare le tasche dei cittadini per incorrere il meno possibile nel rischio di vedersi comminate delle sanzioni pecuniarie alla “Maastricht” a causa del mancato rispetto dei vincoli. Il compromesso raggiunto ha portato a quantificare la riduzione al 2020 nel 21% delle emissioni effettive del 2005. Obiettivo, secondo molti studiosi, non alla nostra portata che probabilmente verrà rivisto nella verifica di marzo 2010, sotto l’egida dell’Onu e dopo la Conferenza di Copenhagen, alla luce degli impegni di Usa, Cina e India.
mercoledì 21 gennaio 2009
67ma puntata. Problemi strutturali dimenticati
L’aggrovigliarsi di fattori congiunturali e strutturali rende molto difficile mettere a fuoco dove e come mettere le mani sulla nostra economia. L’impressione è che lo scossone finanziario partito nell’estate 2007 negli Stati Uniti – che negli ultimi mesi sta colpendo le scelte di consumo, investimento e produzione degli attori economici italiani – e il normale andamento ciclico dell’economia – che si sarebbe manifestato a prescindere da eventi esogeni – abbiano nascosto i veri e annosi problemi di struttura dell’economia italiana e locale.
Uno dei più emergenti riguarda il calo drastico della propensione al rischio e alle scelte, ma soprattutto al cambiamento in ogni area semantica della società odierna. Tra le tante concause si può annoverare una sfiducia sempre crescente tra le varie generazioni successive: i padri non hanno più fiducia nei figli a cui ad esempio faticano a lasciare gradualmente il controllo delle decisioni aziendali, i figli al contrario non sono più interessati a dare un seguito alle attività dei propri padri e non accettano di instaurare con loro qualsiasi tipo di relazione di lavoro.
Il secondo problema strutturale ha a che fare con il nanismo culturale, prima ancora che dimensionale, delle imprese italiane. Un’impresa di piccole dimensioni, certamente, non riesce a ottenere economie di scala (risparmio dei costi tout court), a penetrare sui mercati esteri e a implementare nuovi modelli organizzativi e tecnologici. Ma, altrettanto, un’impresa culturalmente arretrata non attrae talenti e non trattiene quelli presenti, non incoraggia un sistema di produttività basato sulle motivazioni intrinseche (oltre che sugli incentivi monetari) e sul know why della persona (oltre che sul know how), e infine non riesce a costruire un nuovo sistema di relazioni industriali a rete e far parte di un network.
Un’altra crepa nella struttura economica della società postmoderna concerne l’irrisolta questione della precarietà che, tra i tanti effetti umani e sociali, produce una situazione economica non in grado di attivare il risparmio privato. Non a caso, dopo 18 mesi di crisi, si può notare come i principali Paesi dell'Europa continentale hanno dimostrato maggiore capacità di resistenza grazie ai loro risparmi. Se nei Paesi anglosassoni il consumo toccava picchi del 131% sul reddito disponibile, in Italia e Germania si è avuta una maggiore tenuta sociale di fronte alla crisi finanziaria globale grazie alla minore quota di debito delle famiglie rispetto al reddito e grazie alla ricchezza pensionistica. L’allungamento dei tempi di permanenza in una dimensione di precarietà è stata resa possibile in Italia grazie all’accumulazione del risparmio privato da parte delle vecchie generazioni e dall’erosione da parte delle nuove. Tale situazione non è più economicamente, prima ancora che eticamente, sostenibile.
Inutile fare previsioni sui numeri che l’economia italiana farà registrare nel 2009, piuttosto è necessario ricostruire le condizioni strutturali per non trovarsi impreparati quando l’andamento ciclico dell’economia si invertirà. Dunque – è bene chiarirlo – l’economia degli anni a venire non dipenderà da quanto i modelli teorici siano in grado di prevedere il futuro, ma dalle scelte rischiose che i decisori politici, gli imprenditori e i banchieri prenderanno nel corso di questo anno per affrontare i problemi strutturali della nostra economia reale.
mercoledì 14 gennaio 2009
66ma puntata. Mattone incerto, dove rifugiarsi?
Quello appena concluso è stato indubbiamente un anno molto difficile per il mercato immobiliare italiano. Sebbene i pochi dati a disposizione dicano che nel 2008 la crescita dei valori immobiliari sia frenata al +1,1%, il tentativo di nascondersi dietro ai numeri risulta palese. Basta prendere l’indicatore dei tempi medi di vendita delle abitazioni, utilizzato per valutare lo stato di dinamicità immobiliare di un territorio. Nel corso dell’anno appena trascorso questo indicatore si è dilatato oltre i 6 mesi in molte città italiane tra cui Venezia Mestre (6,9 mesi), Bologna (6,6 mesi) e Torino (6,1 mesi). E quanto più il tempo medio di vendita si allunga, tanto più significa che la liquidità si restringe, i soldi non circolano e non c'è più attrazione nell'investire nel real estate. Non solo, ma per il 2009 alcuni responsabili fidi di banche regionali hanno ricevuto l’ordine dalla direzione di chiudere i rubinetti del credito al residenziale perché considerato un settore troppo rischioso e se dovesse verificarsi questo approccio di non concedere mutui o affidamenti alle aziende immobiliari, anche sane, si verificherebbe in questo anno una fuga dal mattone reale da sempre considerato il bene rifugio per eccellenza in grado di raccogliere i disinvestimenti dal mercato finanziario.
Nell’ultimo decennio, infatti, in tutta Europa è fortemente rallentata la rincorsa all’investimento immobiliare diretto, ma l’impressione è che il crollo globale delle borse abbia tenuto su valori positivi le variazioni percentuali dell’immobiliare residenziale.
In Italia, negli ultimi trent’anni i valori immobiliari sono cresciuti del 135,2% e più della metà della crescita è stata registrata nel decennio d’oro 1997-2006 quando la borsa italiana aveva guadagnato il 179,7% nello stesso periodo – nonostante l’11 settembre, il crollo della new economy e i vari scandali finanziari Cirio e Parmalat. Fino ad oggi gli unici due cali dei prezzi medi correnti sono riconducibili agli anni 1983-1985 (-9,2%) e 1993-1995 (-0,5%). Nell’ultimo anno, invece, il calo del Mibtel del 49,64% potrebbe avere limitato il rallentamento del settore immobiliare (+1,1% nel 2008) perché la paura di rimanere intrappolati in borsa potrebbe avere spinto le famiglie italiane a restare più liquide o a trasferire parte della liquidità all’immobiliare residenziale.
Tra i Paesi europei con un mercato immobiliare effervescente troviamo la Spagna e il Regno Unito. Dai dati aggiornati al terzo trimestre 2008, negli ultimi dieci anni il mercato immobiliare residenziale è cresciuto rispettivamente del 171,59% e del 148,91% in termini nominali. Nello stesso periodo a Madrid l’Ibex 35 è diminuito del 13,2% e Londra ha fatto registrare un –29,6% del Ftse 100 (da sottolineare che i due cali di borsa sono pesantemente influenzati dal crollo globale degli ultimi diciotto mesi). Se alcuni analisti sostenevano che nell’ultimo anno in Spagna – così come nei Paesi Bassi – i prezzi immobiliari dovessero piombare verso il basso, i dati mostrano come invece il prezzo medio corrente delle case è rimasto praticamente invariato (+0,39%) proprio mentre la borsa è crollata del 42,76%.
Anche le borse asiatiche hanno vissuto nell’ultimo anno un tracollo dei prezzi, ma la frenata sugli investimenti immobiliari diretti risulta meno spiccata rispetto al resto del mondo. Nel decennio alle spalle i prezzi immobiliari residenziali della Repubblica di Singapore sono cresciuti del 59,18% e nell’ultimo anno la variazioni dei prezzi nominali delle case della città-stato del sud-est asiatico resta comunque positiva (+8,94%), favorita anche dallo scarso appeal della borsa che negli ultimi dodici mesi ha fatto registrare un calo del 50,63% dello Straits Times Index. Anche Hong Kong ha visto l’indice Hang Seng lasciare sul terreno il 48,24%, ma il corso dei prezzi immobiliari sembra avere avuto in termini nominali un ritmo meno fibrillante (+22,54% a dieci anni e +14,62% a dodici mesi). Diverso è, infine, il caso del Giappone immerso in un clima recessivo prima ancora che la crisi finanziaria si manifestasse in tutto il mondo. A guardare i dati sul Giappone l’appellativo di “Paese del Sol Levante” sembra il meno appropriato essendo l’unico, insieme all’Indonesia, ad avere registrato negli ultimi dieci anni una diminuzione del 31,74% dei prezzi nominali immobiliari. Nell’ultimo anno, la caduta dell’indice Nikkei 225 (-47,28%) sembra avere avuto poca influenza sulle negoziazioni e sui prezzi delle case (-0,68%), dato che nel paese persiste da anni la mancanza di fiducia verso il futuro.