mercoledì 9 dicembre 2009

99ma puntata. Verde sbiadito, anzi verde sporco


Sono anni che le energie rinnovabili rappresentano uno dei temi più caldi delle politiche pubbliche e una delle mode più attraenti degli investimenti borsistici. Ma a pochi giorni dalla conclusione della Conferenza Onu a Copenhagen sui cambiamenti climatici quali sono i risultati del cospicuo riversamento di risorse pubbliche e private sull’economia e la finanza verde?
Un tentantivo di risposta arriva da alcuni dati poco confortanti e da quelle contraddizioni tipiche di un modo di ragionare “occidentale”.
Partiamo dai dati: nonostante i cospicui investimenti pubblici sullo sviluppo di impianti solari fotovoltaici, i consumi di energia primaria in Italia (192 Mtep) si caratterizzano sempre per un maggiore ricorso a petrolio e gas (77% nel 2008); se la quota di fonti energetiche rinnovabili sul totale dei consumi (9%) risulta superiore complessivamente rispetto alla media Ocse è esclusivamente grazie all’apporto di quella idroelettrica, ormai satura.
Passando agli investimenti, si può notare come in Italia l’indice borsistico Irex (Italian Renewable Index) non sta battendo il mercato in questi primi segnali di ripresa dei corsi azionari: dall’aprile 2008 ad oggi si è apprezzato del 13%, contro un +18% fatto registrare dai titoli dell’indice generale di borsa Ftse Italia All Share.
Infine, i conti non tornano se pensiamo che le politiche pubbliche internazionali sull’energia si concentrano sempre di più sul come produrre la stessa quantità di energia con fonti meno inquinanti (anziché su come ridurla sin da subito!), mentre ben 2,7 miliardi di persone al mondo sono ancora senza elettricità e necessiterebbero sin da subito di petrolio e gas per scaldarsi e disporre di elettricità. Ma tutto questo è un problema sociale, o addirittura filantropico, di cui l’economia post-crisi, almeno quella verde sbiadita, sembra ancora non volersi occupare.

mercoledì 18 novembre 2009

96.ma puntata. A che punto è la notte?




L’ansia di ripresa sta provocando sul piano mediatico una guerra di numeri che può per esempio dare l’Italia alla fine del tunnel quando viene comunicato il rallentamento della richiesta della cassa integrazione, ma che la danno nuovamente in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010. La crisi finirà quando il Paese tornerà sui livelli di investimenti, disoccupazione e debito pubblico fatti registrare prima della crisi: secondo alcune stime Nomisma se dal prossimo anno cominciamo a crescere dell’1% ci impiegheremo 7 anni.
La politica economica accomodante, l’innovazione finanziaria esasperata, gli squilibri strutturali internazionali e l’assenza dei controlli sono certamente i motivi generanti di questa crisi così virulenta. Tuttavia però non bisogna essere così ingenui dal pensare che lo scoppio dei mutui subprime costituisca la cause ultima o profonda della crisi, che magari sarebbe potuta scoppiare a causa di un rifiuto da parte del governo cinese di finanziare le partite correnti e il debito pubblico statunitensi. Questa crisi trae, dunque, origine da alcune cesure create dal pensiero economico dominante negli ultimi trent’anni: separazione tra l’economico e il sociale; separazione tra il lavoro e la ricchezza; separazione tra produzione e finanza; e infine separazione tra mercato e democrazia. Il tutto al servizio di una crescita che sembrava dovesse essere infinita e che invece ha condannato il mondo intero a un’epidemia.
La risposta immediata è stata quella di costruire facili moralismi, una strada che non sta portando da nessuna parte. L’elezione di Obama ha rafforzato l’idea che si potesse uscire dalla crisi con la green economy, ma quali risultati ha portato gli ingenti investimenti pubblici sull’ambiente e sui nuovi assetti energetici? In Italia, negli ultimi mesi pare sia molto di moda il social housing, per cui il Governo sembra avere creato, attraverso il cosiddetto “piano casa 2”, un sistema di iniziative locali che convoglierà nell’edilizia sociale circa 5 miliardi di euro di capitali di rischio. Risposte comunque utili, ma non adeguate a modificare quel paradigma socio-economico che ha creato una perdita di senso in alcuni pezzi della società, tra cui quello economico e finanziario. È urgente un salto culturale: passare da un’economia capitalistica a un’economia civile, da un’economia del capitale a un’economia della città, da un’economia dei capitalisti (che sono solo una fetta dei cittadini) a un’economia dei cittadini tutti.

mercoledì 4 novembre 2009

95ma puntata. Dalla green economy al social housing?


Dopo la green economy a stelle e strisce, il nuovo sogno per superare la crisi si chiama social housing. Se si può fare business sull’ambiente, perché non farlo sul sociale e sulla difficoltà di accedere alla casa?
Da un lato, sebbene ci sia un 77% di famiglie con una casa di proprietà, sono in aumento quelle categorie di famiglie (anziani in condizioni svantaggiate, giovani coppie, immigrati regolari a basso reddito) non eccessivamente povere da rientrare nelle graduatorie per il fondo sociale per l’affitto o per un alloggio pubblico, e non sufficientemente ricche per potersi permettere l’acquisto di una nuova casa o l’accesso al mercato libero delle locazioni (considerato che dal 2000 la dinamica dei salari è rimasta ferma, mentre quella dei valori immobiliari e dei canoni non si è mai arrestata). Dall’altro lato, però, nonostante questo problema sia reale e urgente, il sistema dei fondi immobiliari pensato dal Governo nel piano di edilizia sociale (cosiddetto piano casa 2) necessita di due premesse rischiose per far sì che tutti i soggetti possano remunerare i capitali di rischio messi a diposizione dalle fondazioni e dai costruttori: i Comuni devono apportare al fondo le aree da edificare a un costo simbolico più che di mercato, con il rischio di una velata dismissione pubblica forzosa; e soprattutto si dovrà permettere, alla scadenza del fondo, di cedere sul mercato le nuove abitazioni costruite dopo massimo 15-20 altrimenti, il che creerà dei rischi sul lato dell’offerta immobiliare in un contesto in cui il rapporto tra abitazioni e famiglie si attesta già oggi a 1,3.

mercoledì 28 ottobre 2009

94ma puntata. Siamo fuori dal tunnel... del divertimento!


L’ansia di ripresa e i retaggi dell’asma cronico post-crisi internazionale stanno portando in questi mesi a una guerra di numeri sul piano mediatico che può per esempio dare l’Italia in ripresa quando viene comunicato il rallentamento della richiesta della cassa integrazione e dell’andamento della produzione industriale, ma che la danno nuovamente in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010. Perché non possiamo ancora dirci fuori dal tunnel? In primo luogo, la crisi finirà tecnicamente quando il Paese tornerà sui livelli pre-crisi di investimenti (diminuiti dal 21,8% sul Pil del 2007 al 17,4% previsti per il 2010), disoccupazione (cresciuta dal 6,1% del 2007 al 10,5% prevista per il 2010) e debito pubblico (verso il 130% del Pil nel 2010, dal 104,5% del 2007). Inoltre, la liquidità pubblica immessa sul sistema economico non è stata finora incanalata nei circuiti reali (erogazione di credito a famiglie e imprese) e, attraverso i veicoli del risparmio gestito e degli hedge funds, ha causato l’attuale bolla borsistica. Quel giorno in cui le banche centrali, statunitense ed europea in particolare, decideranno di drenare l’enorme massa monetaria in circolazione verrà provocato inevitabilmente uno shock sulle borse mondiali che spegnerà l’euforia attuale ingiustificata e, come abbiamo imparato, si riverserà non ancora una volta sul sistema produttivo.

mercoledì 14 ottobre 2009

92ma puntata. Tramonta il Pil

Da molti anni alcuni economisti meno ortodossi lo ripetono in tutte le salse, ma è stata necessaria una formale commissione di venticinque economisti di fama mondiale per giungere alla stessa conclusione di fondo: il prodotto interno lordo (Pil) non può costituire l’unico indicatore per valutare lo stato di salute di un Paese, non è un indicatore falso, ma certamente è stato mitizzato e spesso utilizzato male nei processi di policy making. Per andare oltre la condanna del Pil, la stessa commissione – voluta da Sarkozy e presieduta dal Nobel Stiglitz – ha tenuto a sottolineare che non sempre la “religione delle cifre” aiuta a mettere bene a fuoco la realtà e, dunque, a prendere delle decisioni durature e responsabili. È ormai noto a tutti come l’ansia di ripresa e i retaggi dell’asma cronico post crisi internazionale stanno portando in questi giorni a una guerra di numeri sul piano mediatico che può per esempio dare l’Italia in ripresa quando viene comunicato il rallentamento della richiesta degli interventi e dell’andamento negativo della produzione industriale, ma che la danno in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010.
In modo particolare, la capacità del Pil di esprimere le potenzialità di sviluppo economico è sempre più ridotta nella società postmoderna. Sebbene questo indice misuri il valore di tutti i beni servizi prodotti all’interno di un territorio, è considerato ormai inadeguato a rappresentare lo stato di salute di un’economia, di un territorio, di una società almeno per due ragioni essenziali. La prima è che non tiene conto di una serie di beni e servizi molto importanti per una società, detti beni relazionali, che non passano attraverso il meccanismo di mercato (es. assistenza agli anziani, cura dei bambini, ecc). Una società moderna che sperimenta il principio di reciprocità, ad esempio attraverso una capillare rete di volontariato, dovrebbe ritenersi sviluppata, ma il Pil non ne tiene conto. La seconda è che non incorpora gli investimenti intangibili in grado di accumulare capitale umano (insieme delle capacità e delle abilità acquisite dalle persone) e sociale (insieme delle istituzioni, delle reti di associazionismo civico e delle norme che regolano la convivenza e le relazioni fra persone), considerati oggi due fattori produttivi essenziali per lo sviluppo di una “società decente”. Questo è il motivo principale per cui fino ad ora gli assetti legislativi (rif. leggi 1329/65 Sabatini e 598/94) si sono concentrati nel concedere incentivi alle imprese solo per gli investimenti tangibili (es. acquisto capannoni, macchinari, etc) che costituiscono una parte molto rilevante del Pil.
Sia pur in ritardo rispetto all’evoluzione del pensiero economico, sull’inadeguatezza del Pil si è convinta anche la Banca d’Italia che, nella consueta presentazione annuale delle note regionali sull’economia, ha iniziato dal 2007 a diffondere i dati numerici sull’andamento congiunturale affiancati da quelli sul grado di capitale umano, lasciando un po’ da parte la sua tradizionale funzione di controllo della quantità di moneta e vigilanza sui mercati creditizi. Siamo in un’epoca in cui creare ricchezza vuol dire investire nell’educazione del capitale umano che accrescerà la produttività del lavoro futura. Tuttavia, la conoscenza da sola non basta, perché spesso è tacita o non rilevata, legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto, e solo un adeguato stock di capitale sociale è in grado di smobilizzarla.
Continuare a prevedere la crescita del Pil nel nei prossimi anni potrebbe rivelarsi una perdita di tempo se tutti non condividiamo questa visione, ma soprattutto la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto in Italia sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.

mercoledì 7 ottobre 2009

91ma puntata. Casa, ecco il piano B

Ad oggi sono undici le Regioni che, in attuazione dell’intesa Stato-Regioni dello scorso 31 marzo, hanno approvato un proprio piano casa. Ma quanti, tra i piani già licenziati dai consigli regionali, intervengono sia pure parzialmente sul disagio abitativo? Passando in rassegna le undici leggi regionali risulta molto difficile riscontrare degli interventi strutturati in tema si edilizia sociale. Alcune Regioni – come Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte – hanno previsto soltanto degli interventi sporadici sulla riqualificazione del patrimonio edilizio sociale esistente o sulla concessione di nuove opportunità abitative alle famiglie meno abbienti. In tutte le altre Regioni non sono riscontrabili particolari iniziative di social housing, ma di fatto il Governo aveva solo richiesto loro di approvare, entro 90 giorni dalla data dell’accordo, proprie leggi in materia urbanistica contenenti eventuali aumenti di volumetria (o anche possibilità di demolizione e ricostruzione) riservati essenzialmente a chi è già proprietario di villette e palazzine.
Anche il Governo alla fine si è accorto che il piano casa – così come formulato originariamente "Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche" e che potrebbe essere meglio etichettato come “piano villette” – risponde più alla necessità di procacciare nuove commesse alle piccole e medie imprese edili colpite dalla crisi che all’esigenza impellente di offrire a un numero crescente di famiglie una risposta al disagio abitativo, con tutte le sfumature che esso rappresenta ma che senza dubbio trascende dalla voglia di veranda o della stanza aggiuntiva da parte delle famiglie italiane. Ed è per questo motivo che, nell’estate scorsa e dopo che la maggioranza delle Regioni aveva chiuso la partita sul proprio piano casa, il Governo ha varato un ambizioso “Piano straordinario per l'edilizia residenziale pubblica” (Dcpm del 16 luglio 2009) per affrontare in maniera organica il disagio abitativo, dalla difficoltà di accesso a valori immobiliari di acquisto e di locazione sempre più importanti al degrado derivante da fenomeni di alta tensione abitativa. Il nuovo piano prevede di offrire 100mila nuovi alloggi sociali in affitto a canone moderato a quella fascia di famiglie (anziani, giovani coppie, immigrati regolari, etc) non eccessivamente povere da rientrare tra gli indigenti e non sufficientemente solide economicamente per poter corrispondere un canone libero di mercato. Senza dubbio l’iniziativa rappresenta un forte impegno da parte del Governo per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato nell’ultimo decennio sull’impegno pubblico nel social housing, ma le perplessità sono rappresentate dal finanziamento delle iniziative – vista la scarsità delle risorse pubbliche e l’impegno di parte di esse nelle leggi regionali già varate per “piano villette”; dalla capacità di coinvolgimento di soggetti privati – fondazioni, cooperative, enti non profit, fondi immobiliari, etc – in iniziative di business sociale che in molti casi non consentono un ritorno dall’investimento più elevato della dinamica inflattiva; e, soprattutto, dall’orizzonte temporale di almeno medio periodo (5 anni previsti sulla carta) entro cui si vedranno concretamente realizzati gli obiettivi dell’iniziativa.

giovedì 10 settembre 2009

88ma puntata. Ripresa sì, anzi no

Negli ultimi mesi migliorano sensibilmente gli indicatori di confidenza dei consumatori e quelli sulle attese dei direttori agli acquisti. Ma perché non riescono ancora a ripartire i consumi e gli investimenti?
Finora i Governi dei Paesi avanzati sono riusciti a “tappare i buchi” delle banche e a mettere in campo diversi piani di stimolo della domanda, che però hanno fatto registrare un impatto più o meno positivo a seconda dei diversi meccanismi di trasmissione e delle reti di protezione di cui un Paese è dotato. In Italia, per esempio, la spesa privata per consumi e investimenti resta ferma non tanto e solo perché il Governo ha messo a punto un piano anti-crisi ritardatario e di modeste dimensioni finanziarie – secondo Nomisma nel biennio 2009-2010 il livello di intervento pubblico sarà pari allo 0,3% del Pil, contro il 3,4% della Germania, il 4,5% della Spagna e il 5,9% degli Stati Uniti – quanto piuttosto perché rispetto ad altri Paesi europei si è presentata a ridosso della crisi con un sistema di welfare relativamente ridimensionato, uno scarso livello di infrastrutture sociali esistenti, un sistema di servizi pubblici locali poco esteso ed efficiente e, infine, un’alta pressione fiscale su famiglie e imprese. Tutte queste debolezze strutturali fanno sì che nonostante migliorino gli indicatori di sentiment economico, le famiglie preferiscono posticipare il consumo e le imprese attendono tempi migliori per effettuare investimenti.
In alcuni Paesi occidentali stanno emergendo dei segnali positivi, ma a preoccupare sono i due fardelli del debito pubblico e della disoccupazione creati sin dai primi sconquassi sul mercato finanziario nell’estate 2007 e in soli due anni. Sia pur in modo differenziato in Europa – con l’eccezione di Svezia, Danimarca e Finlandia – i deficit pubblici sono quasi triplicati (dall’8,6% della Spagna al 12% dell’Irlanda) facendo saltare l’intero impianto di stabilità di Maastrict e portando l’indebitamento pubblico a livelli preoccupanti nel 2010 (dal 70,6% della Francia al 117,5% dell’Italia). Anche la disoccupazione rischia di diventare una variabile incandescente perché in quei Paesi dove non si abilitano le famiglie ad accedere agli strumenti di protezione pubblica e integrazione reddituale lo scoppio delle diseguaglianze interne costituirebbero una zavorra per cogliere la ripresa. Da sottolineare come l’Italia partendo dal più basso tasso di disoccupazione nell’area euro (6,1% nel 2007) supererà nel 2010 un tasso del 10% arrivando ai livelli di Francia e Germania; ben peggiore è lo scenario statunitense post-crisi con un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (4,6% del 2007 al 10,1% atteso nel 2010). Se da un lato i processi di globalizzazione del commercio e della finanza mondiale hanno sincronizzato gli squilibri reali e gli effetti distorsivi di questa crisi, dall’altro la speranza dei Paesi avanzati non deve essere riposta nella ripresa degli eccessi americani quanto piuttosto in una nuova fase di sviluppo dei Paesi emergenti. Anche se le disparità stanno aumentando vertiginosamente in questi Paesi, ogni anno milioni di persone fuoriescono dalla povertà assoluta e possono dare vita ad una rilevante crescita dei consumi. Essendo stati più esclusi dalla finanza mondiale e non avendo accumulato debito, i Bric hanno oggi le carte in regola per ripartire subito e dar vita ad una ripresa diacronica vantaggiosa per tutti, a patto però che gli Stati Uniti accettino di ridurre il loro debito privato, l’Europa rimetta in sesto i conti pubblici e la Cina aumenti le sue quote di consumo ad oggi ferme a un terzo del reddito nazionale.

mercoledì 24 giugno 2009

87ma puntata. Erbacce tra semi di ripresa

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.

Gesù disse, Il regno del Padre è come un uomo che ha dei semi. Il suo nemico di notte gli ha piantato erbacce fra i semi. L'uomo non ha voluto che i braccianti gli strappassero le erbacce, ma ha detto loro, 'No, altrimenti per strappare le erbacce potreste finire per strappare anche il grano.' Poiché il giorno del raccolto le erbacce saranno molte, e saranno strappate e bruciate.

venerdì 12 giugno 2009

86ma puntata. Democrazia partecipativa (2)

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mercoledì 3 giugno 2009

85ma puntata. Democrazia partecipativa (1)

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mercoledì 27 maggio 2009

84ma puntata. Finanza islamica

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mercoledì 20 maggio 2009

83ma puntata. Diseguaglianze

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giovedì 14 maggio 2009

82ma puntata. Crisi sincronica, ripresa diacronica?

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.

[Marco Marcatili, da Agi Energia del 12 maggio 2009]

“Non saremo più come prima” è diventato ormai un adagio stancante e i dibattiti che ancora elucubrano sulle cause della crisi, dopo quasi due anni di tormenti finanziari ed economici, rischiano di avvalorare l’idea di George Bernard Show secondo cui “se tutti gli economisti fossero stesi un accanto all’altro, non raggiungerebbero una conclusione”. Negli Stati Uniti è stata proclamata la morte del liberismo e il fallimento delle policy del Washington Consensus; in Europa si discute sulla miopia di una politica monetaria che a fronte di un -1% di inflazione toglie all’area Euro un potenziale di circa 2% di crescita; in Oriente sembra non essere più sostenibile un’economia sovrana che raccoglie ingenti surplus (fiscali, commerciali e petroliferi) dall’Occidente e li rimanda indietro – attraverso partecipazioni dei fondi sovrani, sottoscrizione debito e aumento delle riserve in valuta estera – spesso sulla base di accordi politici sottobanco; ma cosa ci sarà dopo la crisi?
Nonostante non sia possibile valutare ad oggi se i piani di stimolo, fiscali e monetari, messi in campo dagli Stati Uniti, Europa e Cina, stiano andando nella giusta direzione, è opportuno evidenziare i principali effetti della crisi sulle variabili macroeconomiche e mostrare quei Paesi meno “attrezzati” istituzionalmente (efficacia della regolamentazione, livello di welfare, dimensionamento dei capitali collettivi) a resistere all’invasione di titoli tossici e al conseguente congelamento della liquidità, ma soprattutto agli squilibri creati nell’economia reale.
Sorprende come per la prima volta dagli anni ’70 questa crisi risulti non solo più virulenta in termini di effetti negativi sulla crescita, ma anche quella più sincronizzata tra Paesi in termini di riduzione della spesa privata per consumi e investimenti. Stando agli ultimi dati diffusi dall’Fmi, l’acuirsi della crisi ha provocato dal 2007 ad oggi un rilevante calo degli investimenti nei Paesi del G7 tra il 6% (Germania) e il 22% (Stati Uniti e Regno Unito). Solo la Francia e il Giappone vedranno salire nel prossimo anno la quota degli investimenti lordi sul Pil – dal 19,9% del 2009 al 20,3% del 2010 in Francia e dal 21,9% al 22% in Giappone – che consentirà loro di invertire la fase recessiva con un tasso di crescita reale atteso per il 2010 rispettivamente dello 0,28% e 0,35%. Il vuoto lasciato dal calo della domanda dei Paesi industrializzati ha colpito anche i Paesi emergenti non aiutati da un dinamismo della domanda domestica, ma nello stesso tempo non drogati da un’eccessiva accumulazione di debito pubblico e privato. È la Cina a registrare il maggior rallentamento della crescita (dal +13% nel 2007 al +6,5% stimato per il 2009), che però può contare su un più ampio margine di manovra deficit spending, mentre Brasile e India, meno esposti al crack finanziario mondiale, hanno mostrato una buona tenuta con una frenata di Pil di circa cinque punti percentuali.
Inoltre, a preoccupare tutto l’Occidente sono i due fardelli del debito pubblico e della disoccupazione creati sin dai primi sconquassi sul mercato finanziario nell’estate 2007 e in soli due anni. Sia pur in modo differenziato in Europa – con l’eccezione di Svezia, Danimarca e Finlandia – i deficit pubblici sono quasi triplicati (dall’8,6% della Spagna al 12% dell’Irlanda) facendo saltare l’intero impianto di stabilità di Maastrict e portando l’indebitamento pubblico a livelli preoccupanti nel 2010 (dal 70,6% della Francia al 117,5% dell’Italia). Anche la disoccupazione rischia di diventare una variabile incandescente perché in quei Paesi dove non si abilitano le famiglie ad accedere agli strumenti di protezione pubblica e integrazione reddituale lo scoppio delle diseguaglianze interne costituirebbero una zavorra per cogliere la ripresa. Da sottolineare come l’Italia partendo dal più basso tasso di disoccupazione nell’area euro (6,1% nel 2007) supererà nel 2010 un tasso del 10% arrivando ai livelli di Francia e Germania; ben peggiore è lo scenario statunitense post-crisi con un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (4,6% del 2007 al 10,1% atteso nel 2010).
Se da un lato i processi di globalizzazione del commercio e della finanza mondiale hanno sincronizzato gli squilibri reali e gli effetti discorsivi di questa crisi, dall’altro la speranza dei Paesi avanzati non deve essere riposta nella ripresa degli eccessi americani quanto piuttosto in una nuova fase di sviluppo dei Paesi emergenti. Anche se le disparità stanno aumentando vertiginosamente in questi Paesi, ogni anno milioni di persone fuoriescono dalla povertà assoluta e possono dare vita ad una rilevante crescita dei consumi. Essendo stati più esclusi dalla finanza mondiale e non avendo accumulato debito, i Bric hanno oggi le carte in regola per ripartire subito e dar vita ad una ripresa diacronica vantaggiosa per tutti, a patto però gli Stati Uniti accettino un deleveraging privato, l’Europa riduca il suo debito pubblico e la Cina aumenti le sue quote di consumo ad oggi ferme a un terzo del reddito nazionale.

mercoledì 6 maggio 2009

81ma puntata. La Commissione Europea gioca al lotto

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mercoledì 29 aprile 2009

80ma puntata. A braccia conserte

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mercoledì 22 aprile 2009

79ma puntata. Povertà dei poveri e povertà dei ricchi

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venerdì 17 aprile 2009

78ma puntata. Chi può darci una "mano"?

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Per rilanciare i capitali collettivi di un territorio e mettere al centro i talenti migliori è necessario costruire delle politiche pubbliche nuove e orientate al medio termine, approfittando anche della fase appena aperta dal decentramento istituzionale che pone problemi ma anche opportunità. È questo il messaggio dell’interessante tavola rotonda “L’altra mano per lo sviluppo: costruire nuove politiche pubbliche”, tenutasi a Senigallia lo scorso 15 aprile nell’ambito del percorso congressuale di Cisl Marche, in cui hanno preso la parola Carlo Carboni (sociologo dell’Università Politecnica delle Marche), Giuliano Bianchi (presidente di Unioncamere Marche) e Paolo Petrini (Vice Presidente della Giunta Regione Marche).
Se da un lato è evidente che l’attenzione degli economisti si è sempre più spostata verso i fattori immateriali della crescita e che il capitale fisico non è una condizione sufficiente allo sviluppo, dall’altro risulta complesso definire politiche pubbliche locali condivise con tutti gli attori dello sviluppo, libere da qualsiasi condizionamento di breve termine (competizioni elettorali) e soprattutto efficaci nell’accrescere quei capitali (economico, intellettuale, sociale, culturale, istituzionale) in grado di rischiare davvero lo sviluppo di un territorio inteso come crescita compatibile con gli obiettivi economici, ambientali e sociali.
L’impressione è che nelle Marche molto sia stato fatto, ma è fuor di dubbio che alcune politiche non hanno sortito gli effetti desiderati. Solo per fare alcuni esempi, recentemente Banca d’Italia ha decretato come “inefficaci” le politiche industriali attuate nell’ultimo decennio in Italia e, in particolare, nelle regioni ad alta vocazione manifatturiera come le Marche; sono gli scarsi investimenti di private equity nelle piccole e medie imprese della regione (5 milioni di euro nel 2008 contro i 60 milioni dell’Umbria e i 70 della Toscana) a ricordare che c’è stata poca attenzione alle condizioni socio-economiche territoriali che migliorano il livello di attrazione degli investitori istituzionali; e infine la bassa incisività del Piano Energetico Ambientale Regionale (Pear), nonostante fosse stato uno dei primi approvati in Italia, fa essere questa regione ancora il fanalino di coda del Centro-Nord nelle pratiche di risparmio energetico e nello sfruttamento delle fonti rinnovabili. È lo stesso segretario generale regionale Stefano Mastrovincenzo, nella sua relazione congressuale “Noi vivremo del lavoro”, a fare un lucido quadro sull’attuale stato di salute della regione Marche, «ieri la terra dello sviluppo senza fratture, oggi una regione in sospensione: la crisi sembra non farla precipitare ma nello stesso tempo viviamo la sensazione di andare giù. Restiamo una terra di marca – aggiunge poi il segretario Mastrovincenzo – una terra di confine, ma rischiamo di essere anche una terra di passaggio». Già più di due secoli fa era lo stesso Adam Smith ad insistere che un ordine sociale autenticamente liberale aveva bisogno di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una – quella di cui tutti parlano spesso anche a sproposito per una carente capacità interpretativa – e visibile l’altra – quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, diremmo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso il monopolio o l’oligarchia degli interessi economici. Non si tratta di discutere sul “che cosa fare” per il rilancio della società marchigiana, piuttosto sul “chi lo fa” e sul “come farlo” si gioca la sfida futura. Fino ad oggi siamo rimasti incantati sulla ricchezza accumulata dalle Marche con gran fatica e per lungo tempo, lo sviluppo di domani può essere attuato solo disegnando un efficace modello di governance multilivello aperto però ai valori della cooperazione fra i diversi livelli amministrativi (Regioni, Comuni, Province, Unione dei Comuni, etc) e a quelli del rischio e della responsabilità collettiva.

giovedì 9 aprile 2009

77ma puntata. Fondi sovrani: sciacalli o redentori?

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Qualche osservatore economico, specie in Italia, paventa l’idea che anche i fondi sovrani con ben 3,2 trilioni di dollari pronti all’uso siano entrati profondamente in crisi tale da mettere a repentaglio tutte quelle risorse finanziarie millantate dai governi occidentali – dato che la trasparenza non è nelle abitudini dei fondi sovrani – a volte per tranquillizzare le borse su alcune discutibili operazioni di salvataggio e a volte invece per mettere in guardia contro eventuali atti di sciacallaggio da parte di questi fondi nei confronti di banche o imprese svalutate dalla crisi.
Primo, che cosa sono i fondi sovrani? Sono fondi di investimento di proprietà statale e utilizzano i loro surplus fiscali o commerciali per investire in strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, etc) denominati in valuta straniera. La caratteristica principale di questi fondi è di investire in un orizzonte temporale di lungo periodo e di andare alla ricerca di rendimenti elevati associati a un grado di rischio tollerante. Di solito originano in Paesi non democratici e il loro grado di trasparenza è inversamente proporzionale al livello di sviluppo istituzionale del Paese stesso. I primi dieci fondi sovrani al mondo hanno investito risorse pari al 2,5 mila miliardi di dollari, nel complesso si può stimare che tutti i fondi sovrani attivi al mondo provenienti per lo più dall’Asia e dal Medio Oriente arrivino a detenere complessivamente oltre il 3,2 mila miliardi di dollari. Tali risorse finanziarie risultano modeste se comparate a quelle del mondo bancario o assicurativo, ma sono concentrate in mano a circa 20 soggetti nel mondo che decidono le sorti delle economie occidentali spesso sulla base di accordi politici sottobanco.
Secondo, dopo avere investito massicciamente negli Stati Uniti e in Europa i fondi sovrani sono davvero in crisi? Nonostante le perdite subite a causa dei massicci ingressi nei colossi finanziari statunitensi – si può stimare ad esempio che dei 900 miliardi di dollari investiti il fondo sovrano di Abu Dabi ne abbia persi già un terzo con Citigroup – il calo del prezzo del petrolio da 147 dollari (luglio 2008) a 50 (aprile 2009) – che alimenta oltre il 60% delle riserve complessive di questi fondi – e il calo delle esportazioni cinesi – da cui origina un terzo delle riserve – il rapporto Preqin 2009 rivela come a livello aggregato gli investimenti dei fondi sovrani siano cresciuti del 60%, dai 2 trilioni di dollari del 2007 ai 3,2 trilioni ad oggi impiegati. Certamente i fondi stessi hanno risentito della forte turbolenza finanziaria internazionale accumulando considerevoli perdite dovute alla forti svalutazioni azionarie e obbligazionarie, tuttavia nel corso dei dodici mesi precedenti il numero di veicoli istituiti a livello statale non sono diminuiti. Facendo parlare i numeri, dunque, non è possibile parlare di crisi vera e propria per i fondi sovrani.
Infine, ma non per ultimo, quale sarà il loro ruolo nell’economia mondiale? Fino ad oggi la strada perseguita dai fondi sovrani è stata duplice: da un lato investire le risorse, spesso create in Paesi non democratici, a vantaggio dei Paesi sviluppati in cambio di protezioni (ad esempio militari soprattutto nel caso degli Stati Uniti); dall’altro confidare nella finanza come unico segmento di investimento capace di far registrare un ritorno in termini di plusvalenza molto elevato a prescindere dal rischio. Tutti i fondi sovrani hanno risentito favorevolmente di un approccio semi-liberista da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, solo in Francia e Germania è stato possibile apprezzare rispettivamente nel 2005 e nel 2008 una reazione legislativa per sottoporre ad autorizzazione del governo le acquisizioni da parte di investitori al di fuori dell’Europa che comportino un ingresso rilevante nei settori considerati sensibili a livello nazionale.
Il ruolo dei fondi sovrani sull’economia mondiale sta però cambiando enormemente. Le risorse finanziarie accumulate mediante contributi fiscali o pensionistici (caso Singapore e Norvegia) , petrolio o gas (caso Emirati Arabi e Russi), ed esportazioni (caso Cina) verranno destinate ai Paesi occidentali solo attraverso solidi progetti di investimento industriali a lungo termine. Inoltre, rispetto alle operazioni all’estero verranno maggiormente privilegiati gli investimenti domestici a sostegno delle opere infrastrutturali (nei paesi in via di sviluppo) e del rilancio dei settori produttivi (nei paesi considerati sviluppati). A tal proposito il governo francese ha istituito nell’ottobre 2008 un fondo sovrano strategico da 20 miliardi di euro per sostenere le imprese nazionali colpite dalla crisi mondiale e per proteggerle da eventuali atti di sciacallaggio. Un futuro da redentori?

mercoledì 1 aprile 2009

76ma puntata. Allarme giovani

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venerdì 20 marzo 2009

75ma puntata. Tranelli cognitivi

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mercoledì 11 marzo 2009

74ma puntata. Nuovo scenario socio-economico

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giovedì 5 marzo 2009

73ma puntata. Metodo per discutere di nucleare

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mercoledì 25 febbraio 2009

72ma puntata. L'economia brucia più della borsa

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giovedì 19 febbraio 2009

71ma puntata. Antiretorica sulla crisi

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mercoledì 11 febbraio 2009

70ma puntata. Sinking island

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giovedì 5 febbraio 2009

69ma puntata. Dragone senza ali

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Nel 2007 l'ammontare della ricchezza prodotta dal Dragone è stato pari a 25.700 miliardi di yuan - circa 3.500 miliardi di dollari, ovvero 2.700 miliardi di euro, circa il doppio dei 1.500 miliardi di euro di Pil italiano. Queste numeri dicono che la crescita economica – ricordiamo che intendiamo solo beni materiali, nel Pil vengono esclusi i beni relazionali e ambientali – si è attestata a +13% rispetto all'anno precedente, dato superiore all’11,9% stimato dalle statistiche ufficiali diffuse dal governo di Pechino. Tale valore rappresenta la performance più forte del Dragone dal 1994. I balzi in avanti della Cina sul fronte economico sono stati innescati dopo le profonde riforme lanciate nel 1979 dallo storico leader Deng Xiaoping. Allora la sua economia valeva appena 300 miliardi di dollari, meno di un decimo del dato 2007.
Sul piano dei confronti internazionali è avvenuto il sorpasso storico della Cina sulla Germania, il cui ammontare del Pil era pari a 3.300 miliardi di dollari nel 2007. Il Dragone sale così al terzo posto tra le maggiori economie mondiali. Se per scalare un altro gradino, scalzando il Giappone (4.400 miliardi di dollari nel 2007), potrebbero bastare 5 anni – a seconda di come prosegue la congiuntura economica internazionale – un eventuale sorpasso sugli Usa (13.800 miliardi di dollari nel 2007) avverrebbe in 30 anni. Sui dati pro-capite – quelli in cui il valore di un'economia viene diviso per l'intera popolazione – la Cina resta evidentemente molto lontana da qualsiasi Paese avanzato. A ognuno dei circa 85 milioni di tedeschi corrispondono 38.800 dollari sul 2007, mentre diluito per 1 miliardi e 300 milioni di cinesi il Pil 2007 si riduce ad appena 2.800 dollari a testa. Secondo alcuni economisti si potrà colmare tale gap solo con un orizzonte temporale superiore a 20 anni.
Finora il Dragone asiatico ha volato senza ali con un immenso bacino di forza lavoro, ma scontando una bassa produttività. Da quando le dotazioni del paese sono migliorate, le macchine si sono accoppiate alle braccia, la Cina è diventata un vero Dragone. È automatico scalare le classifiche quando si è i primi produttori mondiali di acciaio e di prodotti agricoli. Quando la supremazia riguarderà l'elettronica, la cantieristica, l'automotive, l'apice sarà raggiunto. C'è da sperare che per quel tempo la Cina sia stata finalmente invitata al G8.
Attualmente, però, la principale preoccupazione del governo cinese è di mantenere il più possibile intatta questa vigorosa crescita in un contesto di pesantissimo rallentamento globale e recessione nei paesi industrializzati che sono sbocchi chiave per il suo enorme export. Perché? Per un Paese in via di sviluppo la crescita è una conditio sine qua non per migliorare la qualità della vita e far uscire dalla povertà milioni di famiglie. Diverso è il caso dell’Occidente dove la qualità della vita si è persa con l’aumentare dei soli beni materiali. La maggior parte del miliardo e trecento milioni di cittadini cinesi oggi restano poveri e Pechino considera la crescita un fattore cruciale per combattere la povertà. Secondo alcune stime, comunque di stampo governativo, la crescita del Pil nel 2008 rallenterà a un +9% e nel 2009 non supererà il 6% (in Italia da almeno un lustro non registriamo crescite superiori all’1%). Temendo la crescita, Pechino ha già varato il più massiccio piano a livello mondiale di sostegno all'economia pari a 4.000 miliardi di yuan, ovvero 445 miliardi di euro, più consistente di quanto mobilitato dagli Stati Uniti e circa undici volte delle risorse annunciate qualche giorno fa dal premier italiano. Queste risorse serviranno essenzialmente per sostenere la domanda di auto, per approvare alcune agevolazioni fiscali sull’immobiliare residenziale e per aiutare il settore siderurgico.

mercoledì 28 gennaio 2009

68ma puntata. "Maastricht ambientale"

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C’è chi parla di pacchetto su clima ed energia, chi di intesa sull’ambiente, chi di compromesso sull’economia verde. Ma quello approvato il 17 dicembre scorso dal Parlamento Europeo è o no un vero e proprio trattato ambientale alla “Maastricht”? Così come le regole stabilite dal trattato di Maastricht potrebbero diventare banali e costose formule politiche durante i periodi di burrasca economica, anche la formula commerciale “20-20-20” sull’ambiente e l’energia rischia di diventare una velleità soprattutto quando è ormai riconosciuto dai tecnici che l’Italia non riuscirà a portare a termine gli impegni presi (primo tra tutti ridurre del 6,5% le emissioni di gas serra entro il 2012) e che il costo per raggiungerli sarebbe pari a quattro volte le risorse stanziate dal Governo per le famiglie in difficoltà (circa 4 miliardi) o due volte la cifra richiesta in queste settimane da Confindustria per non chiudere i principali cantieri delle opere pubbliche infrastrutturali (circa 8 miliardi).
Non occorre schierarsi dalla parte degli ambientalisti o degli scettici per capire che è necessario svincolarsi progressivamente dall’uso dei combustibili fossili e ottenere energia da altre fonti. Non solo per ragioni equitative (nei confronti delle generazioni future), ma anche economiche (l’ambiente può trasformarsi in un vero e proprio comparto industriale) e sociali (solo con un diverso schema di sfruttamento delle risorse energetiche i 2,7 miliardi di persone, attualmente sprovvisti di energia elettrica, potranno aumentare la qualità della vita). Se il “dove arrivare” è abbastanza condiviso, è possibile entrare nel merito del “come arrivarci” deciso il mese scorso a Bruxelles. Come è noto, il pacchetto “20-20-20” si basa su uno sforzo comune, e nello stesso tempo differenziato per Paesi, su tre linee di azione con obiettivi quantitativi.
Il primo attiene all’efficienza energetica e l’impegno è quello di ridurre del 20% i consumi di energia entro il 2020. Tutti i documenti presentati dall’Unione Europea sostengono che l’aumento di efficienza possibile è anche superiore al 20% e che il raggiungimento di tale obiettivo non comporta un aumento dei costi totali di fornitura dei servizi energetici. Basta però pensare che nel nostro Paese circa il 65% dei consumi dell’energia riguardano il settore industriale per sollevare alcune perplessità: quali imprese, dopo 18 mesi di crisi, accetterebbero di investire di più oggi per risparmiare nell’acquisto dell’energia domani? Quali imprese accetterebbero di sostituire degli impianti non efficienti, ma non ancora obsoleti, se non hanno nulla da guadagnarci?
Il secondo obiettivo prevede di aumentare il contributo delle fonti rinnovabili al 20% dei consumi finali nel 2020. La discussione su questo punto tra i vari Paesi europei è stata vivace e ne è scaturito il punto debole: nella ripartizione dell’obiettivo ciascun Stato membro mette in luce i maggiori costi che sosterrebbero in dodici anni per raggiungerlo; tali costi dipendono tecnicamente dalla diverse curve di offerta di energia rinnovabile che ciascun Paese è in grado di implementare, ma pochi Paesi conoscono davvero bene questa curva e soprattutto gli ostacoli di natura extra-economica per attuarla. L’Italia ha ottenuto un obiettivo inferiore a quello medio europeo e precisamente pari al 17%. In molti non hanno accettato l’idea del ribasso italiano su un obiettivo socialmente desiderabile, ma è da sottolineare come il consumatore italiano ha già speso molto per l’elettricità da fonti rinnovabili (e assimilate) con uno sviluppo di tale industria di gran lunga inferiore alla Danimarca, Germania o Spagna.
Il terzo obiettivo, infine, consiste nel ridurre del 20% le emissioni dei gas inquinanti, il più noto fra tutti è la Co2. Anche in questo caso l’obiettivo quantitativo andrebbe fissato in base alle curve dei costi marginali di riduzione delle emissioni di ciascun Paese, ma nessuno le conosce bene. Cercare di ottenere un obbligo di riduzione minore possibile non vuol dire sminuire l’obiettivo, ma semplicemente salvaguardare le tasche dei cittadini per incorrere il meno possibile nel rischio di vedersi comminate delle sanzioni pecuniarie alla “Maastricht” a causa del mancato rispetto dei vincoli. Il compromesso raggiunto ha portato a quantificare la riduzione al 2020 nel 21% delle emissioni effettive del 2005. Obiettivo, secondo molti studiosi, non alla nostra portata che probabilmente verrà rivisto nella verifica di marzo 2010, sotto l’egida dell’Onu e dopo la Conferenza di Copenhagen, alla luce degli impegni di Usa, Cina e India.

mercoledì 21 gennaio 2009

67ma puntata. Problemi strutturali dimenticati

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L’aggrovigliarsi di fattori congiunturali e strutturali rende molto difficile mettere a fuoco dove e come mettere le mani sulla nostra economia. L’impressione è che lo scossone finanziario partito nell’estate 2007 negli Stati Uniti – che negli ultimi mesi sta colpendo le scelte di consumo, investimento e produzione degli attori economici italiani – e il normale andamento ciclico dell’economia – che si sarebbe manifestato a prescindere da eventi esogeni – abbiano nascosto i veri e annosi problemi di struttura dell’economia italiana e locale.
Uno dei più emergenti riguarda il calo drastico della propensione al rischio e alle scelte, ma soprattutto al cambiamento in ogni area semantica della società odierna. Tra le tante concause si può annoverare una sfiducia sempre crescente tra le varie generazioni successive: i padri non hanno più fiducia nei figli a cui ad esempio faticano a lasciare gradualmente il controllo delle decisioni aziendali, i figli al contrario non sono più interessati a dare un seguito alle attività dei propri padri e non accettano di instaurare con loro qualsiasi tipo di relazione di lavoro.
Il secondo problema strutturale ha a che fare con il nanismo culturale, prima ancora che dimensionale, delle imprese italiane. Un’impresa di piccole dimensioni, certamente, non riesce a ottenere economie di scala (risparmio dei costi tout court), a penetrare sui mercati esteri e a implementare nuovi modelli organizzativi e tecnologici. Ma, altrettanto, un’impresa culturalmente arretrata non attrae talenti e non trattiene quelli presenti, non incoraggia un sistema di produttività basato sulle motivazioni intrinseche (oltre che sugli incentivi monetari) e sul know why della persona (oltre che sul know how), e infine non riesce a costruire un nuovo sistema di relazioni industriali a rete e far parte di un network.
Un’altra crepa nella struttura economica della società postmoderna concerne l’irrisolta questione della precarietà che, tra i tanti effetti umani e sociali, produce una situazione economica non in grado di attivare il risparmio privato. Non a caso, dopo 18 mesi di crisi, si può notare come i principali Paesi dell'Europa continentale hanno dimostrato maggiore capacità di resistenza grazie ai loro risparmi. Se nei Paesi anglosassoni il consumo toccava picchi del 131% sul reddito disponibile, in Italia e Germania si è avuta una maggiore tenuta sociale di fronte alla crisi finanziaria globale grazie alla minore quota di debito delle famiglie rispetto al reddito e grazie alla ricchezza pensionistica. L’allungamento dei tempi di permanenza in una dimensione di precarietà è stata resa possibile in Italia grazie all’accumulazione del risparmio privato da parte delle vecchie generazioni e dall’erosione da parte delle nuove. Tale situazione non è più economicamente, prima ancora che eticamente, sostenibile.
Inutile fare previsioni sui numeri che l’economia italiana farà registrare nel 2009, piuttosto è necessario ricostruire le condizioni strutturali per non trovarsi impreparati quando l’andamento ciclico dell’economia si invertirà. Dunque – è bene chiarirlo – l’economia degli anni a venire non dipenderà da quanto i modelli teorici siano in grado di prevedere il futuro, ma dalle scelte rischiose che i decisori politici, gli imprenditori e i banchieri prenderanno nel corso di questo anno per affrontare i problemi strutturali della nostra economia reale.

mercoledì 14 gennaio 2009

66ma puntata. Mattone incerto, dove rifugiarsi?

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Quello appena concluso è stato indubbiamente un anno molto difficile per il mercato immobiliare italiano. Sebbene i pochi dati a disposizione dicano che nel 2008 la crescita dei valori immobiliari sia frenata al +1,1%, il tentativo di nascondersi dietro ai numeri risulta palese. Basta prendere l’indicatore dei tempi medi di vendita delle abitazioni, utilizzato per valutare lo stato di dinamicità immobiliare di un territorio. Nel corso dell’anno appena trascorso questo indicatore si è dilatato oltre i 6 mesi in molte città italiane tra cui Venezia Mestre (6,9 mesi), Bologna (6,6 mesi) e Torino (6,1 mesi). E quanto più il tempo medio di vendita si allunga, tanto più significa che la liquidità si restringe, i soldi non circolano e non c'è più attrazione nell'investire nel real estate. Non solo, ma per il 2009 alcuni responsabili fidi di banche regionali hanno ricevuto l’ordine dalla direzione di chiudere i rubinetti del credito al residenziale perché considerato un settore troppo rischioso e se dovesse verificarsi questo approccio di non concedere mutui o affidamenti alle aziende immobiliari, anche sane, si verificherebbe in questo anno una fuga dal mattone reale da sempre considerato il bene rifugio per eccellenza in grado di raccogliere i disinvestimenti dal mercato finanziario.
Nell’ultimo decennio, infatti, in tutta Europa è fortemente rallentata la rincorsa all’investimento immobiliare diretto, ma l’impressione è che il crollo globale delle borse abbia tenuto su valori positivi le variazioni percentuali dell’immobiliare residenziale.
In Italia, negli ultimi trent’anni i valori immobiliari sono cresciuti del 135,2% e più della metà della crescita è stata registrata nel decennio d’oro 1997-2006 quando la borsa italiana aveva guadagnato il 179,7% nello stesso periodo – nonostante l’11 settembre, il crollo della new economy e i vari scandali finanziari Cirio e Parmalat. Fino ad oggi gli unici due cali dei prezzi medi correnti sono riconducibili agli anni 1983-1985 (-9,2%) e 1993-1995 (-0,5%). Nell’ultimo anno, invece, il calo del Mibtel del 49,64% potrebbe avere limitato il rallentamento del settore immobiliare (+1,1% nel 2008) perché la paura di rimanere intrappolati in borsa potrebbe avere spinto le famiglie italiane a restare più liquide o a trasferire parte della liquidità all’immobiliare residenziale.
Tra i Paesi europei con un mercato immobiliare effervescente troviamo la Spagna e il Regno Unito. Dai dati aggiornati al terzo trimestre 2008, negli ultimi dieci anni il mercato immobiliare residenziale è cresciuto rispettivamente del 171,59% e del 148,91% in termini nominali. Nello stesso periodo a Madrid l’Ibex 35 è diminuito del 13,2% e Londra ha fatto registrare un –29,6% del Ftse 100 (da sottolineare che i due cali di borsa sono pesantemente influenzati dal crollo globale degli ultimi diciotto mesi). Se alcuni analisti sostenevano che nell’ultimo anno in Spagna – così come nei Paesi Bassi – i prezzi immobiliari dovessero piombare verso il basso, i dati mostrano come invece il prezzo medio corrente delle case è rimasto praticamente invariato (+0,39%) proprio mentre la borsa è crollata del 42,76%.
Anche le borse asiatiche hanno vissuto nell’ultimo anno un tracollo dei prezzi, ma la frenata sugli investimenti immobiliari diretti risulta meno spiccata rispetto al resto del mondo. Nel decennio alle spalle i prezzi immobiliari residenziali della Repubblica di Singapore sono cresciuti del 59,18% e nell’ultimo anno la variazioni dei prezzi nominali delle case della città-stato del sud-est asiatico resta comunque positiva (+8,94%), favorita anche dallo scarso appeal della borsa che negli ultimi dodici mesi ha fatto registrare un calo del 50,63% dello Straits Times Index. Anche Hong Kong ha visto l’indice Hang Seng lasciare sul terreno il 48,24%, ma il corso dei prezzi immobiliari sembra avere avuto in termini nominali un ritmo meno fibrillante (+22,54% a dieci anni e +14,62% a dodici mesi). Diverso è, infine, il caso del Giappone immerso in un clima recessivo prima ancora che la crisi finanziaria si manifestasse in tutto il mondo. A guardare i dati sul Giappone l’appellativo di “Paese del Sol Levante” sembra il meno appropriato essendo l’unico, insieme all’Indonesia, ad avere registrato negli ultimi dieci anni una diminuzione del 31,74% dei prezzi nominali immobiliari. Nell’ultimo anno, la caduta dell’indice Nikkei 225 (-47,28%) sembra avere avuto poca influenza sulle negoziazioni e sui prezzi delle case (-0,68%), dato che nel paese persiste da anni la mancanza di fiducia verso il futuro.

mercoledì 7 gennaio 2009

65ma puntata. L'anno che verrà

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