Dopo la green economy a stelle e strisce, il nuovo sogno per superare la crisi si chiama social housing. Se si può fare business sull’ambiente, perché non farlo sul sociale e sulla difficoltà di accedere alla casa?
Da un lato, sebbene ci sia un 77% di famiglie con una casa di proprietà, sono in aumento quelle categorie di famiglie (anziani in condizioni svantaggiate, giovani coppie, immigrati regolari a basso reddito) non eccessivamente povere da rientrare nelle graduatorie per il fondo sociale per l’affitto o per un alloggio pubblico, e non sufficientemente ricche per potersi permettere l’acquisto di una nuova casa o l’accesso al mercato libero delle locazioni (considerato che dal 2000 la dinamica dei salari è rimasta ferma, mentre quella dei valori immobiliari e dei canoni non si è mai arrestata). Dall’altro lato, però, nonostante questo problema sia reale e urgente, il sistema dei fondi immobiliari pensato dal Governo nel piano di edilizia sociale (cosiddetto piano casa 2) necessita di due premesse rischiose per far sì che tutti i soggetti possano remunerare i capitali di rischio messi a diposizione dalle fondazioni e dai costruttori: i Comuni devono apportare al fondo le aree da edificare a un costo simbolico più che di mercato, con il rischio di una velata dismissione pubblica forzosa; e soprattutto si dovrà permettere, alla scadenza del fondo, di cedere sul mercato le nuove abitazioni costruite dopo massimo 15-20 altrimenti, il che creerà dei rischi sul lato dell’offerta immobiliare in un contesto in cui il rapporto tra abitazioni e famiglie si attesta già oggi a 1,3.
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