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Per rilanciare i capitali collettivi di un territorio e mettere al centro i talenti migliori è necessario costruire delle politiche pubbliche nuove e orientate al medio termine, approfittando anche della fase appena aperta dal decentramento istituzionale che pone problemi ma anche opportunità. È questo il messaggio dell’interessante tavola rotonda “L’altra mano per lo sviluppo: costruire nuove politiche pubbliche”, tenutasi a Senigallia lo scorso 15 aprile nell’ambito del percorso congressuale di Cisl Marche, in cui hanno preso la parola Carlo Carboni (sociologo dell’Università Politecnica delle Marche), Giuliano Bianchi (presidente di Unioncamere Marche) e Paolo Petrini (Vice Presidente della Giunta Regione Marche).
Se da un lato è evidente che l’attenzione degli economisti si è sempre più spostata verso i fattori immateriali della crescita e che il capitale fisico non è una condizione sufficiente allo sviluppo, dall’altro risulta complesso definire politiche pubbliche locali condivise con tutti gli attori dello sviluppo, libere da qualsiasi condizionamento di breve termine (competizioni elettorali) e soprattutto efficaci nell’accrescere quei capitali (economico, intellettuale, sociale, culturale, istituzionale) in grado di rischiare davvero lo sviluppo di un territorio inteso come crescita compatibile con gli obiettivi economici, ambientali e sociali.
L’impressione è che nelle Marche molto sia stato fatto, ma è fuor di dubbio che alcune politiche non hanno sortito gli effetti desiderati. Solo per fare alcuni esempi, recentemente Banca d’Italia ha decretato come “inefficaci” le politiche industriali attuate nell’ultimo decennio in Italia e, in particolare, nelle regioni ad alta vocazione manifatturiera come le Marche; sono gli scarsi investimenti di private equity nelle piccole e medie imprese della regione (5 milioni di euro nel 2008 contro i 60 milioni dell’Umbria e i 70 della Toscana) a ricordare che c’è stata poca attenzione alle condizioni socio-economiche territoriali che migliorano il livello di attrazione degli investitori istituzionali; e infine la bassa incisività del Piano Energetico Ambientale Regionale (Pear), nonostante fosse stato uno dei primi approvati in Italia, fa essere questa regione ancora il fanalino di coda del Centro-Nord nelle pratiche di risparmio energetico e nello sfruttamento delle fonti rinnovabili. È lo stesso segretario generale regionale Stefano Mastrovincenzo, nella sua relazione congressuale “Noi vivremo del lavoro”, a fare un lucido quadro sull’attuale stato di salute della regione Marche, «ieri la terra dello sviluppo senza fratture, oggi una regione in sospensione: la crisi sembra non farla precipitare ma nello stesso tempo viviamo la sensazione di andare giù. Restiamo una terra di marca – aggiunge poi il segretario Mastrovincenzo – una terra di confine, ma rischiamo di essere anche una terra di passaggio». Già più di due secoli fa era lo stesso Adam Smith ad insistere che un ordine sociale autenticamente liberale aveva bisogno di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una – quella di cui tutti parlano spesso anche a sproposito per una carente capacità interpretativa – e visibile l’altra – quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, diremmo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso il monopolio o l’oligarchia degli interessi economici. Non si tratta di discutere sul “che cosa fare” per il rilancio della società marchigiana, piuttosto sul “chi lo fa” e sul “come farlo” si gioca la sfida futura. Fino ad oggi siamo rimasti incantati sulla ricchezza accumulata dalle Marche con gran fatica e per lungo tempo, lo sviluppo di domani può essere attuato solo disegnando un efficace modello di governance multilivello aperto però ai valori della cooperazione fra i diversi livelli amministrativi (Regioni, Comuni, Province, Unione dei Comuni, etc) e a quelli del rischio e della responsabilità collettiva.
Se da un lato è evidente che l’attenzione degli economisti si è sempre più spostata verso i fattori immateriali della crescita e che il capitale fisico non è una condizione sufficiente allo sviluppo, dall’altro risulta complesso definire politiche pubbliche locali condivise con tutti gli attori dello sviluppo, libere da qualsiasi condizionamento di breve termine (competizioni elettorali) e soprattutto efficaci nell’accrescere quei capitali (economico, intellettuale, sociale, culturale, istituzionale) in grado di rischiare davvero lo sviluppo di un territorio inteso come crescita compatibile con gli obiettivi economici, ambientali e sociali.
L’impressione è che nelle Marche molto sia stato fatto, ma è fuor di dubbio che alcune politiche non hanno sortito gli effetti desiderati. Solo per fare alcuni esempi, recentemente Banca d’Italia ha decretato come “inefficaci” le politiche industriali attuate nell’ultimo decennio in Italia e, in particolare, nelle regioni ad alta vocazione manifatturiera come le Marche; sono gli scarsi investimenti di private equity nelle piccole e medie imprese della regione (5 milioni di euro nel 2008 contro i 60 milioni dell’Umbria e i 70 della Toscana) a ricordare che c’è stata poca attenzione alle condizioni socio-economiche territoriali che migliorano il livello di attrazione degli investitori istituzionali; e infine la bassa incisività del Piano Energetico Ambientale Regionale (Pear), nonostante fosse stato uno dei primi approvati in Italia, fa essere questa regione ancora il fanalino di coda del Centro-Nord nelle pratiche di risparmio energetico e nello sfruttamento delle fonti rinnovabili. È lo stesso segretario generale regionale Stefano Mastrovincenzo, nella sua relazione congressuale “Noi vivremo del lavoro”, a fare un lucido quadro sull’attuale stato di salute della regione Marche, «ieri la terra dello sviluppo senza fratture, oggi una regione in sospensione: la crisi sembra non farla precipitare ma nello stesso tempo viviamo la sensazione di andare giù. Restiamo una terra di marca – aggiunge poi il segretario Mastrovincenzo – una terra di confine, ma rischiamo di essere anche una terra di passaggio». Già più di due secoli fa era lo stesso Adam Smith ad insistere che un ordine sociale autenticamente liberale aveva bisogno di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una – quella di cui tutti parlano spesso anche a sproposito per una carente capacità interpretativa – e visibile l’altra – quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, diremmo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso il monopolio o l’oligarchia degli interessi economici. Non si tratta di discutere sul “che cosa fare” per il rilancio della società marchigiana, piuttosto sul “chi lo fa” e sul “come farlo” si gioca la sfida futura. Fino ad oggi siamo rimasti incantati sulla ricchezza accumulata dalle Marche con gran fatica e per lungo tempo, lo sviluppo di domani può essere attuato solo disegnando un efficace modello di governance multilivello aperto però ai valori della cooperazione fra i diversi livelli amministrativi (Regioni, Comuni, Province, Unione dei Comuni, etc) e a quelli del rischio e della responsabilità collettiva.
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