Ad oggi sono undici le Regioni che, in attuazione dell’intesa Stato-Regioni dello scorso 31 marzo, hanno approvato un proprio piano casa. Ma quanti, tra i piani già licenziati dai consigli regionali, intervengono sia pure parzialmente sul disagio abitativo? Passando in rassegna le undici leggi regionali risulta molto difficile riscontrare degli interventi strutturati in tema si edilizia sociale. Alcune Regioni – come Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte – hanno previsto soltanto degli interventi sporadici sulla riqualificazione del patrimonio edilizio sociale esistente o sulla concessione di nuove opportunità abitative alle famiglie meno abbienti. In tutte le altre Regioni non sono riscontrabili particolari iniziative di social housing, ma di fatto il Governo aveva solo richiesto loro di approvare, entro 90 giorni dalla data dell’accordo, proprie leggi in materia urbanistica contenenti eventuali aumenti di volumetria (o anche possibilità di demolizione e ricostruzione) riservati essenzialmente a chi è già proprietario di villette e palazzine.
Anche il Governo alla fine si è accorto che il piano casa – così come formulato originariamente "Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche" e che potrebbe essere meglio etichettato come “piano villette” – risponde più alla necessità di procacciare nuove commesse alle piccole e medie imprese edili colpite dalla crisi che all’esigenza impellente di offrire a un numero crescente di famiglie una risposta al disagio abitativo, con tutte le sfumature che esso rappresenta ma che senza dubbio trascende dalla voglia di veranda o della stanza aggiuntiva da parte delle famiglie italiane. Ed è per questo motivo che, nell’estate scorsa e dopo che la maggioranza delle Regioni aveva chiuso la partita sul proprio piano casa, il Governo ha varato un ambizioso “Piano straordinario per l'edilizia residenziale pubblica” (Dcpm del 16 luglio 2009) per affrontare in maniera organica il disagio abitativo, dalla difficoltà di accesso a valori immobiliari di acquisto e di locazione sempre più importanti al degrado derivante da fenomeni di alta tensione abitativa. Il nuovo piano prevede di offrire 100mila nuovi alloggi sociali in affitto a canone moderato a quella fascia di famiglie (anziani, giovani coppie, immigrati regolari, etc) non eccessivamente povere da rientrare tra gli indigenti e non sufficientemente solide economicamente per poter corrispondere un canone libero di mercato. Senza dubbio l’iniziativa rappresenta un forte impegno da parte del Governo per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato nell’ultimo decennio sull’impegno pubblico nel social housing, ma le perplessità sono rappresentate dal finanziamento delle iniziative – vista la scarsità delle risorse pubbliche e l’impegno di parte di esse nelle leggi regionali già varate per “piano villette”; dalla capacità di coinvolgimento di soggetti privati – fondazioni, cooperative, enti non profit, fondi immobiliari, etc – in iniziative di business sociale che in molti casi non consentono un ritorno dall’investimento più elevato della dinamica inflattiva; e, soprattutto, dall’orizzonte temporale di almeno medio periodo (5 anni previsti sulla carta) entro cui si vedranno concretamente realizzati gli obiettivi dell’iniziativa.
Anche il Governo alla fine si è accorto che il piano casa – così come formulato originariamente "Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche" e che potrebbe essere meglio etichettato come “piano villette” – risponde più alla necessità di procacciare nuove commesse alle piccole e medie imprese edili colpite dalla crisi che all’esigenza impellente di offrire a un numero crescente di famiglie una risposta al disagio abitativo, con tutte le sfumature che esso rappresenta ma che senza dubbio trascende dalla voglia di veranda o della stanza aggiuntiva da parte delle famiglie italiane. Ed è per questo motivo che, nell’estate scorsa e dopo che la maggioranza delle Regioni aveva chiuso la partita sul proprio piano casa, il Governo ha varato un ambizioso “Piano straordinario per l'edilizia residenziale pubblica” (Dcpm del 16 luglio 2009) per affrontare in maniera organica il disagio abitativo, dalla difficoltà di accesso a valori immobiliari di acquisto e di locazione sempre più importanti al degrado derivante da fenomeni di alta tensione abitativa. Il nuovo piano prevede di offrire 100mila nuovi alloggi sociali in affitto a canone moderato a quella fascia di famiglie (anziani, giovani coppie, immigrati regolari, etc) non eccessivamente povere da rientrare tra gli indigenti e non sufficientemente solide economicamente per poter corrispondere un canone libero di mercato. Senza dubbio l’iniziativa rappresenta un forte impegno da parte del Governo per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato nell’ultimo decennio sull’impegno pubblico nel social housing, ma le perplessità sono rappresentate dal finanziamento delle iniziative – vista la scarsità delle risorse pubbliche e l’impegno di parte di esse nelle leggi regionali già varate per “piano villette”; dalla capacità di coinvolgimento di soggetti privati – fondazioni, cooperative, enti non profit, fondi immobiliari, etc – in iniziative di business sociale che in molti casi non consentono un ritorno dall’investimento più elevato della dinamica inflattiva; e, soprattutto, dall’orizzonte temporale di almeno medio periodo (5 anni previsti sulla carta) entro cui si vedranno concretamente realizzati gli obiettivi dell’iniziativa.
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