Negli ultimi mesi migliorano sensibilmente gli indicatori di confidenza dei consumatori e quelli sulle attese dei direttori agli acquisti. Ma perché non riescono ancora a ripartire i consumi e gli investimenti?
Finora i Governi dei Paesi avanzati sono riusciti a “tappare i buchi” delle banche e a mettere in campo diversi piani di stimolo della domanda, che però hanno fatto registrare un impatto più o meno positivo a seconda dei diversi meccanismi di trasmissione e delle reti di protezione di cui un Paese è dotato. In Italia, per esempio, la spesa privata per consumi e investimenti resta ferma non tanto e solo perché il Governo ha messo a punto un piano anti-crisi ritardatario e di modeste dimensioni finanziarie – secondo Nomisma nel biennio 2009-2010 il livello di intervento pubblico sarà pari allo 0,3% del Pil, contro il 3,4% della Germania, il 4,5% della Spagna e il 5,9% degli Stati Uniti – quanto piuttosto perché rispetto ad altri Paesi europei si è presentata a ridosso della crisi con un sistema di welfare relativamente ridimensionato, uno scarso livello di infrastrutture sociali esistenti, un sistema di servizi pubblici locali poco esteso ed efficiente e, infine, un’alta pressione fiscale su famiglie e imprese. Tutte queste debolezze strutturali fanno sì che nonostante migliorino gli indicatori di sentiment economico, le famiglie preferiscono posticipare il consumo e le imprese attendono tempi migliori per effettuare investimenti.
In alcuni Paesi occidentali stanno emergendo dei segnali positivi, ma a preoccupare sono i due fardelli del debito pubblico e della disoccupazione creati sin dai primi sconquassi sul mercato finanziario nell’estate 2007 e in soli due anni. Sia pur in modo differenziato in Europa – con l’eccezione di Svezia, Danimarca e Finlandia – i deficit pubblici sono quasi triplicati (dall’8,6% della Spagna al 12% dell’Irlanda) facendo saltare l’intero impianto di stabilità di Maastrict e portando l’indebitamento pubblico a livelli preoccupanti nel 2010 (dal 70,6% della Francia al 117,5% dell’Italia). Anche la disoccupazione rischia di diventare una variabile incandescente perché in quei Paesi dove non si abilitano le famiglie ad accedere agli strumenti di protezione pubblica e integrazione reddituale lo scoppio delle diseguaglianze interne costituirebbero una zavorra per cogliere la ripresa. Da sottolineare come l’Italia partendo dal più basso tasso di disoccupazione nell’area euro (6,1% nel 2007) supererà nel 2010 un tasso del 10% arrivando ai livelli di Francia e Germania; ben peggiore è lo scenario statunitense post-crisi con un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (4,6% del 2007 al 10,1% atteso nel 2010). Se da un lato i processi di globalizzazione del commercio e della finanza mondiale hanno sincronizzato gli squilibri reali e gli effetti distorsivi di questa crisi, dall’altro la speranza dei Paesi avanzati non deve essere riposta nella ripresa degli eccessi americani quanto piuttosto in una nuova fase di sviluppo dei Paesi emergenti. Anche se le disparità stanno aumentando vertiginosamente in questi Paesi, ogni anno milioni di persone fuoriescono dalla povertà assoluta e possono dare vita ad una rilevante crescita dei consumi. Essendo stati più esclusi dalla finanza mondiale e non avendo accumulato debito, i Bric hanno oggi le carte in regola per ripartire subito e dar vita ad una ripresa diacronica vantaggiosa per tutti, a patto però che gli Stati Uniti accettino di ridurre il loro debito privato, l’Europa rimetta in sesto i conti pubblici e la Cina aumenti le sue quote di consumo ad oggi ferme a un terzo del reddito nazionale.
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