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L’aggrovigliarsi di fattori congiunturali e strutturali rende molto difficile mettere a fuoco dove e come mettere le mani sulla nostra economia. L’impressione è che lo scossone finanziario partito nell’estate 2007 negli Stati Uniti – che negli ultimi mesi sta colpendo le scelte di consumo, investimento e produzione degli attori economici italiani – e il normale andamento ciclico dell’economia – che si sarebbe manifestato a prescindere da eventi esogeni – abbiano nascosto i veri e annosi problemi di struttura dell’economia italiana e locale.
Uno dei più emergenti riguarda il calo drastico della propensione al rischio e alle scelte, ma soprattutto al cambiamento in ogni area semantica della società odierna. Tra le tante concause si può annoverare una sfiducia sempre crescente tra le varie generazioni successive: i padri non hanno più fiducia nei figli a cui ad esempio faticano a lasciare gradualmente il controllo delle decisioni aziendali, i figli al contrario non sono più interessati a dare un seguito alle attività dei propri padri e non accettano di instaurare con loro qualsiasi tipo di relazione di lavoro.
Il secondo problema strutturale ha a che fare con il nanismo culturale, prima ancora che dimensionale, delle imprese italiane. Un’impresa di piccole dimensioni, certamente, non riesce a ottenere economie di scala (risparmio dei costi tout court), a penetrare sui mercati esteri e a implementare nuovi modelli organizzativi e tecnologici. Ma, altrettanto, un’impresa culturalmente arretrata non attrae talenti e non trattiene quelli presenti, non incoraggia un sistema di produttività basato sulle motivazioni intrinseche (oltre che sugli incentivi monetari) e sul know why della persona (oltre che sul know how), e infine non riesce a costruire un nuovo sistema di relazioni industriali a rete e far parte di un network.
Un’altra crepa nella struttura economica della società postmoderna concerne l’irrisolta questione della precarietà che, tra i tanti effetti umani e sociali, produce una situazione economica non in grado di attivare il risparmio privato. Non a caso, dopo 18 mesi di crisi, si può notare come i principali Paesi dell'Europa continentale hanno dimostrato maggiore capacità di resistenza grazie ai loro risparmi. Se nei Paesi anglosassoni il consumo toccava picchi del 131% sul reddito disponibile, in Italia e Germania si è avuta una maggiore tenuta sociale di fronte alla crisi finanziaria globale grazie alla minore quota di debito delle famiglie rispetto al reddito e grazie alla ricchezza pensionistica. L’allungamento dei tempi di permanenza in una dimensione di precarietà è stata resa possibile in Italia grazie all’accumulazione del risparmio privato da parte delle vecchie generazioni e dall’erosione da parte delle nuove. Tale situazione non è più economicamente, prima ancora che eticamente, sostenibile.
Inutile fare previsioni sui numeri che l’economia italiana farà registrare nel 2009, piuttosto è necessario ricostruire le condizioni strutturali per non trovarsi impreparati quando l’andamento ciclico dell’economia si invertirà. Dunque – è bene chiarirlo – l’economia degli anni a venire non dipenderà da quanto i modelli teorici siano in grado di prevedere il futuro, ma dalle scelte rischiose che i decisori politici, gli imprenditori e i banchieri prenderanno nel corso di questo anno per affrontare i problemi strutturali della nostra economia reale.
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