Sono anni che le energie rinnovabili rappresentano uno dei temi più caldi delle politiche pubbliche e una delle mode più attraenti degli investimenti borsistici. Ma a pochi giorni dalla conclusione della Conferenza Onu a Copenhagen sui cambiamenti climatici quali sono i risultati del cospicuo riversamento di risorse pubbliche e private sull’economia e la finanza verde?
Un tentantivo di risposta arriva da alcuni dati poco confortanti e da quelle contraddizioni tipiche di un modo di ragionare “occidentale”.
Partiamo dai dati: nonostante i cospicui investimenti pubblici sullo sviluppo di impianti solari fotovoltaici, i consumi di energia primaria in Italia (192 Mtep) si caratterizzano sempre per un maggiore ricorso a petrolio e gas (77% nel 2008); se la quota di fonti energetiche rinnovabili sul totale dei consumi (9%) risulta superiore complessivamente rispetto alla media Ocse è esclusivamente grazie all’apporto di quella idroelettrica, ormai satura.
Passando agli investimenti, si può notare come in Italia l’indice borsistico Irex (Italian Renewable Index) non sta battendo il mercato in questi primi segnali di ripresa dei corsi azionari: dall’aprile 2008 ad oggi si è apprezzato del 13%, contro un +18% fatto registrare dai titoli dell’indice generale di borsa Ftse Italia All Share.
Infine, i conti non tornano se pensiamo che le politiche pubbliche internazionali sull’energia si concentrano sempre di più sul come produrre la stessa quantità di energia con fonti meno inquinanti (anziché su come ridurla sin da subito!), mentre ben 2,7 miliardi di persone al mondo sono ancora senza elettricità e necessiterebbero sin da subito di petrolio e gas per scaldarsi e disporre di elettricità. Ma tutto questo è un problema sociale, o addirittura filantropico, di cui l’economia post-crisi, almeno quella verde sbiadita, sembra ancora non volersi occupare.
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