giovedì 14 maggio 2009

82ma puntata. Crisi sincronica, ripresa diacronica?

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.

[Marco Marcatili, da Agi Energia del 12 maggio 2009]

“Non saremo più come prima” è diventato ormai un adagio stancante e i dibattiti che ancora elucubrano sulle cause della crisi, dopo quasi due anni di tormenti finanziari ed economici, rischiano di avvalorare l’idea di George Bernard Show secondo cui “se tutti gli economisti fossero stesi un accanto all’altro, non raggiungerebbero una conclusione”. Negli Stati Uniti è stata proclamata la morte del liberismo e il fallimento delle policy del Washington Consensus; in Europa si discute sulla miopia di una politica monetaria che a fronte di un -1% di inflazione toglie all’area Euro un potenziale di circa 2% di crescita; in Oriente sembra non essere più sostenibile un’economia sovrana che raccoglie ingenti surplus (fiscali, commerciali e petroliferi) dall’Occidente e li rimanda indietro – attraverso partecipazioni dei fondi sovrani, sottoscrizione debito e aumento delle riserve in valuta estera – spesso sulla base di accordi politici sottobanco; ma cosa ci sarà dopo la crisi?
Nonostante non sia possibile valutare ad oggi se i piani di stimolo, fiscali e monetari, messi in campo dagli Stati Uniti, Europa e Cina, stiano andando nella giusta direzione, è opportuno evidenziare i principali effetti della crisi sulle variabili macroeconomiche e mostrare quei Paesi meno “attrezzati” istituzionalmente (efficacia della regolamentazione, livello di welfare, dimensionamento dei capitali collettivi) a resistere all’invasione di titoli tossici e al conseguente congelamento della liquidità, ma soprattutto agli squilibri creati nell’economia reale.
Sorprende come per la prima volta dagli anni ’70 questa crisi risulti non solo più virulenta in termini di effetti negativi sulla crescita, ma anche quella più sincronizzata tra Paesi in termini di riduzione della spesa privata per consumi e investimenti. Stando agli ultimi dati diffusi dall’Fmi, l’acuirsi della crisi ha provocato dal 2007 ad oggi un rilevante calo degli investimenti nei Paesi del G7 tra il 6% (Germania) e il 22% (Stati Uniti e Regno Unito). Solo la Francia e il Giappone vedranno salire nel prossimo anno la quota degli investimenti lordi sul Pil – dal 19,9% del 2009 al 20,3% del 2010 in Francia e dal 21,9% al 22% in Giappone – che consentirà loro di invertire la fase recessiva con un tasso di crescita reale atteso per il 2010 rispettivamente dello 0,28% e 0,35%. Il vuoto lasciato dal calo della domanda dei Paesi industrializzati ha colpito anche i Paesi emergenti non aiutati da un dinamismo della domanda domestica, ma nello stesso tempo non drogati da un’eccessiva accumulazione di debito pubblico e privato. È la Cina a registrare il maggior rallentamento della crescita (dal +13% nel 2007 al +6,5% stimato per il 2009), che però può contare su un più ampio margine di manovra deficit spending, mentre Brasile e India, meno esposti al crack finanziario mondiale, hanno mostrato una buona tenuta con una frenata di Pil di circa cinque punti percentuali.
Inoltre, a preoccupare tutto l’Occidente sono i due fardelli del debito pubblico e della disoccupazione creati sin dai primi sconquassi sul mercato finanziario nell’estate 2007 e in soli due anni. Sia pur in modo differenziato in Europa – con l’eccezione di Svezia, Danimarca e Finlandia – i deficit pubblici sono quasi triplicati (dall’8,6% della Spagna al 12% dell’Irlanda) facendo saltare l’intero impianto di stabilità di Maastrict e portando l’indebitamento pubblico a livelli preoccupanti nel 2010 (dal 70,6% della Francia al 117,5% dell’Italia). Anche la disoccupazione rischia di diventare una variabile incandescente perché in quei Paesi dove non si abilitano le famiglie ad accedere agli strumenti di protezione pubblica e integrazione reddituale lo scoppio delle diseguaglianze interne costituirebbero una zavorra per cogliere la ripresa. Da sottolineare come l’Italia partendo dal più basso tasso di disoccupazione nell’area euro (6,1% nel 2007) supererà nel 2010 un tasso del 10% arrivando ai livelli di Francia e Germania; ben peggiore è lo scenario statunitense post-crisi con un tasso di disoccupazione più che raddoppiato (4,6% del 2007 al 10,1% atteso nel 2010).
Se da un lato i processi di globalizzazione del commercio e della finanza mondiale hanno sincronizzato gli squilibri reali e gli effetti discorsivi di questa crisi, dall’altro la speranza dei Paesi avanzati non deve essere riposta nella ripresa degli eccessi americani quanto piuttosto in una nuova fase di sviluppo dei Paesi emergenti. Anche se le disparità stanno aumentando vertiginosamente in questi Paesi, ogni anno milioni di persone fuoriescono dalla povertà assoluta e possono dare vita ad una rilevante crescita dei consumi. Essendo stati più esclusi dalla finanza mondiale e non avendo accumulato debito, i Bric hanno oggi le carte in regola per ripartire subito e dar vita ad una ripresa diacronica vantaggiosa per tutti, a patto però gli Stati Uniti accettino un deleveraging privato, l’Europa riduca il suo debito pubblico e la Cina aumenti le sue quote di consumo ad oggi ferme a un terzo del reddito nazionale.

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