Da molti anni alcuni economisti meno ortodossi lo ripetono in tutte le salse, ma è stata necessaria una formale commissione di venticinque economisti di fama mondiale per giungere alla stessa conclusione di fondo: il prodotto interno lordo (Pil) non può costituire l’unico indicatore per valutare lo stato di salute di un Paese, non è un indicatore falso, ma certamente è stato mitizzato e spesso utilizzato male nei processi di policy making. Per andare oltre la condanna del Pil, la stessa commissione – voluta da Sarkozy e presieduta dal Nobel Stiglitz – ha tenuto a sottolineare che non sempre la “religione delle cifre” aiuta a mettere bene a fuoco la realtà e, dunque, a prendere delle decisioni durature e responsabili. È ormai noto a tutti come l’ansia di ripresa e i retaggi dell’asma cronico post crisi internazionale stanno portando in questi giorni a una guerra di numeri sul piano mediatico che può per esempio dare l’Italia in ripresa quando viene comunicato il rallentamento della richiesta degli interventi e dell’andamento negativo della produzione industriale, ma che la danno in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010.
In modo particolare, la capacità del Pil di esprimere le potenzialità di sviluppo economico è sempre più ridotta nella società postmoderna. Sebbene questo indice misuri il valore di tutti i beni servizi prodotti all’interno di un territorio, è considerato ormai inadeguato a rappresentare lo stato di salute di un’economia, di un territorio, di una società almeno per due ragioni essenziali. La prima è che non tiene conto di una serie di beni e servizi molto importanti per una società, detti beni relazionali, che non passano attraverso il meccanismo di mercato (es. assistenza agli anziani, cura dei bambini, ecc). Una società moderna che sperimenta il principio di reciprocità, ad esempio attraverso una capillare rete di volontariato, dovrebbe ritenersi sviluppata, ma il Pil non ne tiene conto. La seconda è che non incorpora gli investimenti intangibili in grado di accumulare capitale umano (insieme delle capacità e delle abilità acquisite dalle persone) e sociale (insieme delle istituzioni, delle reti di associazionismo civico e delle norme che regolano la convivenza e le relazioni fra persone), considerati oggi due fattori produttivi essenziali per lo sviluppo di una “società decente”. Questo è il motivo principale per cui fino ad ora gli assetti legislativi (rif. leggi 1329/65 Sabatini e 598/94) si sono concentrati nel concedere incentivi alle imprese solo per gli investimenti tangibili (es. acquisto capannoni, macchinari, etc) che costituiscono una parte molto rilevante del Pil.
Sia pur in ritardo rispetto all’evoluzione del pensiero economico, sull’inadeguatezza del Pil si è convinta anche la Banca d’Italia che, nella consueta presentazione annuale delle note regionali sull’economia, ha iniziato dal 2007 a diffondere i dati numerici sull’andamento congiunturale affiancati da quelli sul grado di capitale umano, lasciando un po’ da parte la sua tradizionale funzione di controllo della quantità di moneta e vigilanza sui mercati creditizi. Siamo in un’epoca in cui creare ricchezza vuol dire investire nell’educazione del capitale umano che accrescerà la produttività del lavoro futura. Tuttavia, la conoscenza da sola non basta, perché spesso è tacita o non rilevata, legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto, e solo un adeguato stock di capitale sociale è in grado di smobilizzarla.
Continuare a prevedere la crescita del Pil nel nei prossimi anni potrebbe rivelarsi una perdita di tempo se tutti non condividiamo questa visione, ma soprattutto la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto in Italia sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.
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