mercoledì 31 dicembre 2008

63ma puntata. L'economia sotto il tappeto

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mercoledì 24 dicembre 2008

62ma puntata. Disoccupazione

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mercoledì 17 dicembre 2008

61ma puntata. Bomba ad orologeria chiamata sinking funds

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mercoledì 10 dicembre 2008

60ma puntata. L'esempio di Francia e Regno Unito

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mercoledì 3 dicembre 2008

59ma puntata. Illusioni del piano anti-crisi

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mercoledì 26 novembre 2008

58ma puntata. Come cambiano le banche

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giovedì 20 novembre 2008

57ma puntata. L'economia che fa notizia

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mercoledì 12 novembre 2008

56ma puntata. Recessione senza alibi

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La tanto temuta recessione è arrivata. Stando ai dati del Centro Studi Confindustria sarebbero il secondo e il terzo i due trimestri consecutivi di variazione negativa del Pil reale – rispettivamente di -0,4% e -0,5% rispetto ai trimestri precedenti – che decretano per l’Italia una recessione in senso tecnico. Situazioni analoghe a quella italiana sono in Germania e Francia, ben più gravi invece in Spagna (dove la bolla immobiliare è scoppiata realmente e non solo in borsa come in Italia), Gran Bretagna e Russia (che risentono molto della non appartenenza all’area euro).
Da un lato c’è chi sostiene che la recessione sia dovuta soltanto alle ricadute delle tensioni finanziarie mondiali sull’economia reale domestica soprattutto in un sistema economico italiano molto orientato al commercio estero, dall’altro lato invece chi vede l’indebolimento dell’economia reale italiana indipendente dallo scossone finanziario globale che certamente ha accelerato e amplificato il percorso vero la recessione economica.
Non è un problema formale, in Italia c’erano già i sintomi sostanziali che anticipavano questa recessione a prescindere dall’andamento delle borse: diminuzione degli ordinativi industriali; livelli di attività produttiva più bassi di quelli che si sarebbero potuti ottenere usando completamente ed efficientemente tutte le risorse a disposizione; aumento vertiginoso del ricorso alla cassa integrazione guadagni (Cig) da parte delle imprese in stato di difficoltà e dissesto; pressione per una riduzione del tasso di interesse in grado di incentivare le imprese a riprendere dai cassetti i piani di investimenti (fermi non tanto per l’insufficienza di credito bancario, quanto più per il deteriorarsi della fiducia e del rischio imprenditoriali); rallentamento del tasso di inflazione core (esclude le componenti più volatili, energetici e alimentari) come conseguenza di una minore domanda interna.
Non è la recessione il pericolo maggiore da evitare, essa può diventare una cura necessaria delle malattie endemiche di un sistema economico troppo chiuso ai processi creativi e innovativi, all’educazione di capitale umano e sociale, e alle sfide di un modo diverso di fare impresa, di fare banca e di partecipare al mercato. Gli Stati Uniti, dopo il crollo della new economy, hanno iniziato a rifiutare una recessione necessaria inondando i mercati di liquidità, incentivando i consumatori a un eccessiva esposizione debitoria, portando il dollaro a livelli molto bassi tali da amplificare il problema del cosiddetto deficit gemelli (alto debito pubblico e saldo negativo delle partite correnti nella bilancia dei pagamenti), generando una bolla speculativa immobiliare (si pensi ai 14 trilioni di dollari di mutui ipotecari subprime in circolazione) e finanziaria (si pensi ai 62 trilioni di dollari di prodotti derivati in circolazione, in alcuni casi detenuti inconsapevolmente da famiglie, imprese ed enti locali). A preoccupare, dunque, non è una recessione formale, ma una sostanziale mancanza di una strategia comune di medio termine che generi reazioni positive e nuove speranze nell’affrontare un futuro sempre più difficile sul piano culturale prima ancora che economico.

mercoledì 5 novembre 2008

55ma puntata. Fallimento della Busheconomics

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mercoledì 29 ottobre 2008

54ma puntata. Regole per una nuova Bretton Woods

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I prossimi libri di storia economica racconteranno, più o meno in questi termini, la prima crisi del nuovo millennio. “Le autorità governative sottovalutarono una crisi che, inizialmente, veniva circoscritta a qualche mutuo ipotecario di cittadini statunitensi non facoltosi. Poi, con il crollo della Aig, numero uno delle polizze statunitensi, anche il mercato assicurativo venne minato, ma, fino ad allora, le pensioni restarono ancora un tabù e ci fu un vuoto informativo su come i fondi privati statunitensi continuarono ad erogare pensioni dopo i dimezzamenti azionari e i crack obbligazionari. Così si passò da una crisi subprime ad una crisi di liquidità – a causa del piano Paulson per liberare le banche di tutte le attività tossiche – fino a ad arrivare, in pochi mesi, ad una crisi di insolvenza – risultato del piano dei governi europei di ricapitalizzare le banche entrando nella compagine azionaria senza diritto di voto.”
Fin qui tutto chiaro, ma poi cosa successe? La speranza è che dopo la carota (salvataggi bancari) si passi al bastone (regole del gioco semplici, chiare e verificabili) e che la storia della crisi continui con un concreto ritorno a un nuovo ordine economico globale. Da anni, infatti, soltanto una minoranza di studiosi invoca la necessità di un nuovo accordo alla Bretton Woods (cittadina statunitense in cui si tenne nel 1944 la famigerata conferenza di 730 delegati appartenenti a 44 nazioni che diede vita ad un nuovo sistema di regole commerciali e finanziarie, istituendo nel 1946 il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale). Ora che la crisi si è manifestata anche sotto gli occhi degli ottimisti poco informati, alcuni leader politici come Gordon Brown e Nicolas Sarkozy stanno provando a tracciare le basi per un nuovo accordo planetario e per riformare le istituzioni economiche proposte in un nuovo regolatore globale.
Sul piano culturale, una nuova Bretton Woods dovrebbe portare con sé l’idea di un mondo nel quale la crescita sia reale e non sostenuta dalla montagna dei debiti o drogata dalle pure innovazioni finanziarie non al servizio delle famiglie e delle imprese; un mondo nel quale i consumi delle famiglie aumentino solo al crescere reddito e non con la creatività delle formule commerciali e finanziarie; un mondo, infine, in cui di etica non si debba più parlare perché implicita nei comportamenti e nel buon senso di tutti gli agenti economici.
Sul piano dei tecnicismi sono già state proposte alcune regole essenziali per Bretton Woods 2: investire la banca centrale del ruolo assoluto di vigilanza, ridefinire il ruolo e il metodo delle agenzie di rating in modo tale che non risulti ancora che il controllato venga pagato dal controllore; definire di una nuova moneta mondiale, o paniere di monete, di riferimento diversa dal dollaro; regolamentare alcune prassi finanziaria tipiche del mondo anglosassone (vendite allo scoperto, cartolarizzazioni, negoziazioni over the counter, hedge funds, etc); ideare di nuovi piani globali marshalliani di cooperazione internazionale.

giovedì 23 ottobre 2008

53ma puntata. Volto delle nuove crisi

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C’è qualcosa di spaventosamente simile nelle due vicende che hanno segnato la storia economica mondiale e italiana, il crack finanziario statunitense e il dissesto di Alitalia.
In primo luogo, le due vicende sono state causate da errori umani e gravi responsabilità. Se ciò è ampiamente condiviso per il caso Alitalia, è meno intuitivo comprendere come questa crisi non sia figlia di una depressione reale preesistente, della fiducia o di un ineluttabile andamento ciclico della finanza, ma di gravi errori commessi da chi in questi stessi giorni intende far credere ai mercati di tutto il mondo che c’è un modo per curare questo crack finanziario. A tal proposito le parole di John Lanchster, figlio di un banchiere della city, sono illuminanti: «fin da piccolo sento parlare di questa bestia mitologica chiamata “panico bancario”. Se ne parlava spesso, ma nessuno l’aveva mai visto. Si dice che i banchieri ne siano terrorizzati, anche se mio padre ne parlava con una specie di perverso senso dell’umorismo. Era sempre il segno che qualcuno aveva fatto una cazzata e bella grossa. E a volta era anche il segno che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel sistema finanziario».
In secondo lungo, l’idea del governo Berlusconi che separando le buone attività (rilevate dalla Compagnia Aerea Italiana) dalle passività (rimaste sul groppone della collettività) si potesse creare un’impresa privata profittevole è la stessa di quella ideata dal piano di Paulson, Ministro del Tesoro Usa, secondo cui le banche torneranno a creare valore soltanto spogliandole delle loro potenziali passività, costituite dai mutui spazzatura e vendute a prezzo di mercato alle autorità statunitensi. Mentre nel caso Alitalia la speranza è che un nuovo management introduca criteri di economicità, efficacia ed efficienza diversi da quelli fino ad ora consolidati in aziende semi-pubbliche, nel mondo finanziario la cruda verità è che sin dalla loro nascita le banche hanno cambiato il loro mestiere e la loro utilità sociale. Ai tempi dei Monti di Pietà, sul finire del XIV secolo, le banche svolgevano due compiti fondamentali: anticipare la semina ai contadini e prestare denaro a chi avesse una buona idea imprenditoriale. Con l’avvento del capitalismo, sul finire del XIX secolo, l’attività bancaria si fondava nel concedere servizi tradizionali, primo fra tutti erogare mutui coperti da garanzie reali. Oggi, invece, nell’era dell’economia ipocrita e confusa le banche non sono più fabbriche del credito, che concedono prestiti, incassano interessi fino alla scadenza e lucrano sulla differenza tra il tasso passivo e quello attivo. È più redditizio aumentare l’attività di compravendita di titoli e commerciare i prestiti, accenderli ai clienti e venderli – in cambio di commissioni – ad altri intermediari finanziari specializzati in grado di impacchettare una serie di prestiti e collocarli sui mercati finanziari.
Per ultimo, i modi pragmatici di risolvere la vicenda Alitalia e quella finanziaria statunitense sembrano essere, agli occhi degli scettici, più l’inganno di regalare soldi ai ricchi che dalla volontà politica di offrire sul mercato le condizioni essenziali per uscire da una fase acuta di stallo. Se da un lato è vero che il mercato aereo è uno dei più difficili e complessi da affrontare, dall’altro non ci sono dubbi sui favori legislativi (deroga alle norme antitrust e applicazione delle legge Marzano) concessi alla cordata di imprenditori italiani e su rilevante trasferimento ai cittadini italiani dei debiti accumulati negli anni da Alitalia. Anche negli Stati Uniti, se è vero che sono stati aumentati a 250mila dollari (da 100mila) il livello dei depositi bancari garantiti, è altrettanto certo che il piano di aiuti da 700 miliardi di dollari varato dal governo Bush sarà maggiormente utilizzato per cancellare dai bilanci delle banche i crediti probabilmente inesigibili, aumentare il loro grado di salute e, dunque, il corso delle azioni di queste banche fino ad ora sfiduciate dai mercati. Inoltre, è stato calcolato che il piano di aiuti alle grandi banche costerà 2.300 dollari per ogni contribuente statunitense. Per questi motivi, è opinione diffusa negli Stati Uniti, soprattutto in alcuni ambienti accademici, che il piano Paulson serve a sostenere i milionari di Wall Street e non agricoltori, operai e insegnanti che vivono di prestiti e faticano a fare la spesa.
Nessun americano si immaginerebbe mai che negli Stati Uniti potesse accadere qualcosa di simile alla vicenda Alitalia, così come nessun italiano catastrofista scommetterebbe mai che in Italia si possa lasciare fallire una banca. Un cinese non avrebbe sorprese da tali comportamenti, un africano la chiamerebbe corruzione. Se questa è globalizzazione, “quello che verrà domani non me lo ricordo”.

mercoledì 15 ottobre 2008

52ma puntata. Potere dei derivati

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mercoledì 8 ottobre 2008

51ma puntata. Errori marchiani nel settore calzaturiero

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Qualche imprenditore locale poco oculato sostiene che “la calzatura non è in difficoltà” e che “resta uno dei settori più invidiati in Italia” – magari circoscrivendo l’analisi territoriale esclusivamente al successo della propria realtà aziendale – ma come mai ben il 40% dei figli degli imprenditori calzaturieri non intendono assolutamente mettersi in gioco su questo settore economico?
In questi anni il sistema calzaturiero fermano si è affidato eccessivamente agli spiragli di quei pochi numeri positivi diffusi a ridosso di ogni manifestazione fieristica, ma ogni vecchio economista sa che “se li torturi abbastanza, i dati ti confesseranno quello che vuoi sapere”. In Emilia-Romagna dove i numeri sono davvero positivi – reddito pro-capite più alto e grado di diseguaglianza più basso in Italia, alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, 45% di imprese che investono in R&S, etc - ci si interroga su quale ruolo strategico abbiano produzioni come la meccanica in un mondo che cambia progressivamente la propria divisione internazionale del lavoro e percorre la strada dei servizi avanzati dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle energie alternative, etc. Nel nostro territorio, invece, da un decennio “si tira per la giacchetta” la calzatura che per fortuna di tutti ha fatto il suo corso, ma a cui purtroppo non si è saputo dare un futuro perché il terrore per la Cindia ha avuto la meglio sulla creazione di centri direzionali, sullo sviluppo di politiche cooperative, sull’ideazione di un sistema di riqualificazione professionale e di trasferimento della conoscenza applicata alla calzatura.
Secondo una ricerca dell’Università Politecnica delle Marche circa il 40% dei figli delle aziende dell’area “scarponia” hanno interessi lavorativi diversi dai propri padri. La stessa percentuale evidenzia un problema tutto italiano di passaggio generazionale, ma ad esempio è di gran lunga superiore al 12% dell’area “merlonia”.
Sono tre gli errori marchiani commessi a livello politico, imprenditoriale e sindacale che hanno reso il settore calzaturiero fermano-maceratese uno dei meno appetibili soprattutto per i giovani.
Il primo riguarda l’assetto e la dimensione d’impresa, troppo piccola e troppo poco valorizzante i talenti di un nuovo arrivato. Negli anni ’90 le imprese non hanno approfittato della crescita realizzata per trasformarsi e affrontare un problema di nanismo culturale ancor prima di quello dimensionale. Oggi, nelle fabbriche è evidente la netta separazione tra la struttura produttiva e quella decisionale, tra il capannone e l’ufficio. Inoltre, nel capannone non si sono valorizzate le maestranze, nell’ufficio tutte le funzioni sono rimaste in capo all’imprenditore che non ha saputo assorbire validi collaboratori provenienti dal mondo universitario (il che avrebbe significato poter contare su dei potenziali dirigenti d’azienda diversi dai propri figli).
Il secondo errore concerne l’incapacità di tradurre in pratica le forme di investimento in capitale umano, maestranze e quadri d’azienda, diverse dal mero incentivo monetario (molto spesso risultano migliori gli incentivi legati alla creazione di un ambiente di lavoro di stima e fiducia reciproca). Le imprese non hanno mai investito in capitale umano perché non hanno capito che nell’epoca attuale del post-fordismo e della società della conoscenza il lavoro creativo e specializzato conta più della macchina e del capitale. Investire nelle persone, non vuol dire creare asili nido, mense e palestre, ma rendere il lavoratore partecipe del gioco economico, costruire un ambiente di lavoro decente, riuscire ad estrapolare la creatività dell’ultimo arrivato, smobilizzare la conoscenza tacita di ciascun lavoratore, ovvero non rivelata perché legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto.
Il terzo errore, conseguenza diretta dei primi due, è stato di non aver potuto recepire i vantaggi derivanti dall’apertura dei mercati. È evidente, infatti, che il non aver rafforzato il sistema delle relazioni industriali sul territorio, il non aver creato una solida struttura di impresa e una specializzazione del lavoro creativa e flessibile ha fatto sì che il gioco della globalizzazione ha migliorato solo la condizione di benessere dei lavoratori qualificati peggiorando, al contempo, quella dei lavoratori poco qualificati e che soffrono l’invecchiamento tecnologico.
Essere ottimisti per partito presto può servire a poco se nella nuova provincia non condividiamo la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.

mercoledì 1 ottobre 2008

50ma puntata. Crack della fiducia e dell'onestà

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Con la finanza, tu puoi cambiare il mondo” è lo slogan della nota società di consulenza McKinsey per reclutare una miriade di giovani laureati costretti a mettere in un cassetto i due insegnamenti più importanti ricevuti dallo studio della finanza “utile” per l’economia reale: il primo è che non esistono pasti gratis in finanza, il secondo è che il valore si crea solo sul lato delle attività – organizzando lavoro, beni e conoscenza – e non sul lato delle passività.
E in effetti questa finanza ha avvelenato l’epicentro finanziario, gli Stati Uniti, ormai contaminato da quattro eccessi: quello dei debiti delle famiglie arrivati a toccare punte del 131% del reddito disponibile; quello delle speculazioni finanziarie attraverso l’esposizione su strumenti derivati senza finalità di copertura dal rischio (se sono un produttore di pasta è auspicabile contrarre un future che mi garantisca l’acquisto di grano a un prezzo fissato oggi, se sono un risparmiatore l’acquisto dello stesso prodotto derivato costituisce un aumento del livello di rischio e di potenzialità di guadagno) e soprattutto la diffusione della tecnica dello short selling (possibilità di vendere titoli non in possesso, se si ritiene che il prezzo scenderà, con l’obbligo di acquistare titoli e consegnarli al compratore entro una certa scadenza); quello della cartolarizzazione dei prestiti che ha consentito alle banche erogatrici di creare pericolosi cocktail finanziari e di spalmare il rischio ad altri soggetti sparsi in tutto il mondo, con la collaborazione delle agenzie di rating e di alcune modalità discutibili quanto a trasparenza sul mercato; quello dei bassi tassi di interesse che, in questi anni di politica monetaria accomodante nei confronti delle scelte governative, ha spinto cittadini a compiere arrischiate operazioni di indebitamento e di rincorsa della bolla immobiliare nell’incantesimo di un costo del denaro reale (tasso nominale meno l’inflazione) nullo o addirittura negativo.
La crisi finanziaria di oggi nasce da un catastrofico crollo di fiducia nei confronti di banche, autorità e leader politici. Perché questa crisi non è figlia di una depressione reale preesistente o di un ineluttabile andamento ciclico della finanza, ma di gravi errori commessi da chi in questi stessi giorni intende far credere ai mercati di tutto il mondo che c’è un modo per curare questa crisi finanziaria. A tal proposito le parole di John Lanchster, figlio di un banchiere della city, sono illuminanti: «fin da piccolo sento parlare di questa bestia mitologica chiamata “panico bancario”. Se ne parlava spesso, ma nessuno l’aveva mai visto. Si dice che i banchieri ne siano terrorizzati, anche se mio padre ne parlava con una specie di perverso senso dell’umorismo. Era sempre il segno che qualcuno aveva fatto una cazzata e bella grossa. E a volta era anche il segno che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel sistema finanziario».

mercoledì 24 settembre 2008

49ma puntata. Signoraggio

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mercoledì 17 settembre 2008

48ma puntata. Legali pasticci finanziari: l'Italia è salva?

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In poche settimane gli americani hanno sfatato due miti: anche una banca commerciale, e non solo l’impresa, può fallire e anche il capitalismo ammette salvataggi. In termini meno scontati, il capitalismo americano non fa sconti alle imprese e ai cittadini, ma salva chi fa più danni.
Tuttavia, in questo contesto di eccessi e legali pasticci finanziari l’Italia può considerarsi salva o spacciata? Le banche italiane sono ancora le uniche protagoniste del finanziamento dell’esplosione della domanda e dell’offerta del mercato residenziale: sebbene nell’ultimo decennio parecchie risorse siano state prosciugate all’attività produttiva, a favore dell’immobiliare, rispetto ad altri paesi europei hanno adottato politiche prudenziali nell’erogare nuovi prestiti. A tal fine conta poco se abbiano intenzionalmente voluto questo effetto, oppure, con maggiore probabilità, se sia stata una conseguenza dell’arretratezza del sistema finanziario domestico. Inoltre, l’Italia sembra avere approfittato poco del decennio d’oro (1997-2006) per il real estate, costruendo nuove abitazioni per un volume tre volte inferiore a quello spagnolo. Così, oggi, risulta piuttosto improbabile che le quotazioni possano ridimensionarsi per eccesso di offerta (come in Spagna) e neppure è probabile un eccesso di offerta originato da case messe all’asta dalle banche creditrici di mutuatari insolventi (come in Usa) poiché l’indebitamento delle famiglie italiane è strutturalmente inferiore a quello statunitense.
Sono però molti i lati oscuri. Negli ultimi anni le banche italiane hanno cambiato il loro mestiere, aumentando enormemente l’attività di compravendita di titoli tanto da ritrovare nel loro stato patrimoniale odierno consistenti strumenti finanziari di origine statunitense. Inoltre, molti imprenditori italiani hanno preferito sempre di più investire liquidità sul mercato finanziario anziché in attività reali considerate più incerte e rischiose ed oggi si trovano nello stesso stato di azionisti di banche in difficoltà e di obbligazionisti di titoli tossici.
L’Italia è salva da una propria crisi finanziaria, ma resta assolutamente appesa al crollo finanziario statunitense e a un’economia reale che fatica a riprendere.

mercoledì 10 settembre 2008

47ma puntata. Città "disambientate"

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Con sfumature diverse, ma si ripete ormai da anni che i nostri modelli di comportamento rischiano di creare danni irreparabili all’ambiente. Se le motivazioni economiche stanno progressivamente inducendo gli animal spirits del mondo dell’impresa a contenere i consumi industriali e sperimentare l’utilizzo di fonti alternative, quelle “buoniste” o “ambientaliste” stanno convincendo le amministrazioni pubbliche locali a migliorare sensibilmente le compatibilità ambientali?
Stando ai dati sugli indicatori ambientali urbani pubblicati lo scorso 28 agosto dall’Istat sembrerebbe proprio di no.
Sebbene nel 2007 gli indicatori analizzati nei comuni capoluogo di provincia – relativamente alle tematiche rifiuti, inquinamento acustico, inquinamento atmosferico, trasporti, verde urbano, acqua ed energia - evidenzino sensibili miglioramenti rispetto all’anno precedente, sono ancora poche le amministrazioni cittadine che si sono dotate dei più importanti strumenti per monitorare e migliorare le condizioni ambientali sul proprio territorio: dal Piano Energetico Ambientale Comunale per razionalizzare il consumo di acqua, gas ed energia e per incentivare il ricorso alle energie alternative al Piano del Verde Urbano per lo sviluppo della densità di aree verdi; dal Piano Urbano del Traffico per migliorare le condizioni di circolazione e sicurezza stradale al Piano di Zonizzazione Acustica che stabilisce i limiti di emissione sonore tollerabili nelle diverse zone della città. Inoltre, nello scorso anno per ben 71,4 giorni le centraline installate per monitorare la qualità dell’aria hanno rilevato uno sforamento del limite previsto per l’emissioni urbane di polveri sottili. Il dato sul superamento del livello per il PM10 (particolato con diametro minore di 10 micron) è migliorato dell’11,3%, ma il suo livello supera del doppio le 35 giornate consentite dalla normativa (DM 60/2002). Da sottolineare come, seppure il problema dell’inquinamento atmosferico nei centri storici dei capoluogo di provincia sia impellente, ci sono una diecina di città concentrate nelle due isole che non dispongono ancora di una centralina fissa per il rilevamento degli inquinanti come il biossido di azoto (NO2), del PM10, del monossido di carbonio (CO), dell’ozono (O3) e del benzene (C6H6).
Nel 2007 le città di Trento, Bologna e Venezia si confermano ai primi tre posti della classifica generale stilata dall’Istat sui comuni più rispettosi dell’ambiente urbano. Belluno raggiunge Venezia con un salto di 5 posizioni, seguono Biella e Cuneo - quest’ultimo con un guadagno relativo di 11 posizioni - e ancora Prato, Modena e Ravenna. In evidenza il balzo di 25 posizioni in classifica del Comune di Ravenna che ha portato la raccolta differenziata dal 35,4% al 42,7% e ridotto le giornate di superamento del limite per il PM10 si sono ridotte da 46 a 19, rientrando negli obblighi di legge. Anche Villacidro - comune di quasi 15mila abitanti della provincia del Medio Campidano di cui insieme con Sanluri ne costituisce il capoluogo - conquista 47 posizioni grazie soprattutto all’approvazione del piano di zonizzazione acustica e al dato sulla raccolta differenziata, passato dal 25,0% del 2006 al 58,2% del 2007.
Anche le quattro posizioni a partire dal basso sono confermate rispetto allo scorso anno. Ultima nella classifica dei capoluogo di provincia più eco-compatibili è per il secondo anno consecutivo il Comune di Massa che non sembra essersi attivata per migliorare le condizioni ambientali nel proprio comune: la raccolta differenziata è pari al 24,1% e il dato è inferiore al 25,4% della media italiana; il numero degli sforamenti giornalieri del limite previsto per il PM10 è pari a 26 e il dato è solo migliore a Siracusa con 273 sforamenti; sono assenti il piano di zonizzazione acustica, il piano del verde urbano, il piano del traffico e quello energetico ambientale comunale. Si confermano, inoltre, al penultimo posto Siracusa, al terzultimo Olbia e al quart’ultimo Iglesias. In discesa rispetto allo scorso anno risultano Savona (che perde 16 posizioni), Firenze e Carbonia (con 14 posti in meno) e Lecco (con 13 in meno). In queste ultime quattro città si attenua il controllo degli inquinanti nell’aria, non si fanno interventi di bonifica con barriere antirumore e non c’è un piano per il verde urbano, ad eccezione del comune di Savona, che però fa registrare una densità di verde ancora bassissima, con i rifiuti raccolti in aumento e la quota di quelli differenziati in diminuzione.

giovedì 4 settembre 2008

46.ma puntata. Alitalia: no free lunch!

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mercoledì 27 agosto 2008

45ma puntata. Salvamutui?

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Può l’accordo siglato il 19 giugno scorso dall’Abi e il Ministero dell’Economia essere considerato un vero e proprio “salvamutui”?
Venerdì 29 agosto, infatti, è il termine fissato entro cui le banche e gli intermediari finanziari devono inviare a 5,2 milioni di italiani – circa una famiglia su cinque – le proprie offerte di rinegoziazione (ex Dl 93/2008) delle rate del mutuo acceso a tasso variabile prima del 28 maggio 2008 per l’acquisto, la ristrutturazione e la costruzione dell’abitazione principale. Le proposte delle banche devono contenere tutti gli elementi utili a valutare gli effetti della rinegoziazione: importo e tasso originario del finanziamento; capitale residuo del mutuo; rata attuale; e rata derivante dalla rinegoziazione. Ai mutuatari spetterà la difficile scelta di accettare l’offerta, continuare a pagare lo stesso importo o trasferire l’attuale mutuo a tasso variabile in un’altra banca approfittando della legge sulla portabilità (ex Dl 7/2007) e delle eventuali offerte vantaggiose sul mercato. È da sottolineare, tuttavia, che se aderire all’accordo prevede anche la possibilità della surroga in futuro, il percorso inverso non è ammesso.
Conviene o no accettare l’offerta? Come prendere questa decisione e sulla base di quale alternativa?
Sul piano del mero calcolo di convenienza ciascun mutuatario dovrà contrapporre il beneficio quasi immediato di un abbassamento delle rate in scadenza dal 2009 (al livello della rata media esborsata nel 2006) al costo di un allungamento della durata originaria (nel caso in cui i tassi di interesse aumentassero in futuro) e, quindi, di un incremento dell’onere complessivo del finanziamento. Abbattere la rata non vuol dire ridurre il costo del mutuo, ma è altresì evidente che questa scelta potrebbe essere una strada obbligata per tutte quelle famiglie che non sono in grado onorare i pagamenti mensili o trimestrali e che hanno già superato la soglia di sostenibilità di incidenza del 30% della rata sul reddito complessivo disponibile. Inoltre, dalle ultime simulazioni effettuate dal Sole 24 Ore, emergono due valutazioni oggettive: la prima è che maggiore è la durata residua e più elevato è il pericolo di un allungamento del mutuo; la seconda riguarda i mutui più datati, per cui è stata già rimborsata più della metà del capitale residuo, sui quali i benefici che si otterrebbero aderendo alla convenzione Abi-Ministero dell’Economia sarebbero esigui.
Al contrario, sul piano della trasparenza sono molti i dubbi e le domande che a distanza di due mesi dalla firma della convenzione non hanno ancora trovato una risposta. Le comunicazioni delle banche saranno chiare, semplici e trasparenti se solo di recente l’Antitrust ha dovuto avviare un’istruttoria per pratica commerciale scorretta nei confronti di 23 importanti istituti di credito? Saranno gli stessi soggetti che hanno indotto i cittadini ad avventurarsi in incomprensibili congetture sui tassi di interesse a guidare i mutuatari in questa scelta? Si doveva per forza arrivare ad una convenzione dove è palese il vantaggio delle banche legato alla maturazione degli interessi del conto accessorio – in cui viene depositata la differenza tra l’importo dovuto secondo il piano di ammortamento originario e quello risultante dalla rinegoziazione - oppure si poteva proporre e spiegare da tempo ai cittadini la formula del tasso variabile a rata costante?
La crisi geopolitica e le paure di recessione in molti paesi europei hanno raffreddato, almeno a Francoforte, le ipotesi di un prossimo rialzo del costo del denaro. Ciò ha reso solo apparentemente più allettante accettare l’offerta di rinegoziazione ricevuta dalla propria banca. Tuttavia, secondo i dati Nomisma, nel 2007 è avvenuta una trasformazione epocale almeno dal punto di vista culturale: a fronte di un capitale erogato dalle banche per mutui pari a 63 miliardi di euro, circa il 25% è rappresentato dalle sostituzioni (e il dato è destinato ad aumentare nel 2008 dopo che l’ultima legge finanziaria ha chiarito che tutti le spese di trasferimento del mutuo sono a carico delle banche subentranti). Ciò vuol dire che in questi mesi moltissimi di italiani hanno compreso che è necessario non fermarsi alle lusinghe della propria banca, ma cercare continuamente condizioni più vantaggiose spingendo l’offerta bancaria verso quella concorrenza ancora mediocre al momento. E se ad oggi la convenzione Abi-Ministero dell’Economia porta con sé numerosi dubbi certamente è stata l’occasione per suggerire alle famiglie italiane un check-up dei finanziamenti per la casa.

mercoledì 20 agosto 2008

44ma puntata. Tre lezioni estive

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La pausa estiva non ha potuto cambiare lo stato di un’economia fredda, soprattutto in Europa, con prezzi caldi. Ma, forse, è servita a farci riflettere su tre lezioni e su come dobbiamo vedere alcuni mali dell’economia come stimoli per un cambiamento imminente.
La prima riguarda lo shock petrolifero: quanto ci siamo ripiegati nel comprendere quanto dell’aumento del prezzo del petrolio fosse dovuto ad atteggiamenti speculativi, senza minimamente reagire con un cambio di rotta nelle strategie di risparmio energetico e di sperimentazione di nuove fonti alternative?
La seconda ha a che fare con l’impennata dell’euro sul biglietto verde: quanto la lezione è servita per far capire alle nostre imprese che la competitività non riposa sulle incertezze dei cambi, ma sulle innovazioni incrementali dei prodotti e del modo di fare impresa?
La terza riassume la crisi del sistema dei mutui, melius finanziario in generale: le banche saranno disposte da qui in avanti a interiorizzare alcune regole minime di trasparenza e di distanza da certi strumenti finanziari molto rischiosi e poco innovativi per il cittadino e per l’impresa?

mercoledì 2 luglio 2008

43ma puntata. Stagflazione

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.

mercoledì 25 giugno 2008

42ma puntata. Conto subprime

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
È difficile stimare quanto valgono le perdite complessive del sistema creditizio, assicurativo e finanziario internazionale intaccato dal virus dei subprime: quasi 1.000 miliardi di dollari secondo il Fmi, ma il conto finale chi lo paga?
Le negoziazioni degli strumenti finanziari strutturati, con al loro interno il baco subprime, hanno subito una crescita esponenziale in tutto il mondo, grazie anche al loro scambio in mercati non regolamentati e poco trasparenti. In aggiunta, stando al solo settore bancario, gli stessi istituti di credito statunitensi erogatori di mutui residenziali hanno difficoltà a stimare l’ammontare dei crediti potenzialmente insolvibili da mettere in bilancio nella voce svalutazione crediti. Per avere dei calcoli affidabili bisognerà aspettare la fine dell’estate, quando scatterà per un alto numero di mutui la seconda tranche di pagamenti (a uno, tre, cinque o sette dall’apertura di un mutuo), per vedere quanti mutuatari continueranno ancora a pagare dopo avere superatole rate della prima tranche tenute volutamente basse dalle banche e finanziarie statunitensi per attirare un grande numero di clienti.
Autorevoli personaggi e organizzazioni internazionali hanno provato a lanciare delle cifre sulla bolla subprime, in un gioco a rialzo che ormai dura da nove mesi. A poche settimane dallo scoppio della crisi, nell’estate 2007, il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, dichiarava che le perdite legate alla crisi dei mutui sarebbero state di circa 100 miliardi di dollari e che un pacchetto di incentivi significativi all’economia statunitense da parte della Casa Bianca non avrebbe dovuto essere inferiore a quella cifra. A novembre 2007, però, l’Ocse diffondeva la prima stima tra 200 e 300 miliardi di euro di perdite potenziali da mutui subprime, cifra che durante un meeting presso l’organizzazione parigina ad aprile 2008 è stata rivista da una forbice di perdita complessiva tra 350 e 420 miliardi di dollari. Numeri ancora molto ottimisti se paragonati al costo complessivo di 945 miliardi di dollari - stimati dal Fmi il mese scorso - per ripianare la crisi innescata dal virus dei subprime. Ad oggi i principali istituti finanziari del mondo hanno accantonato soltanto un quinto della perdita potenziale indicata dal Fmi (circa 200 miliardi dei 1.000 indicati come perdita potenziale) e il conto rischia di diventare esorbitante se dovessero verificarsi le previsioni catastrofiche dell’economista Nouriel Roubini (Stern School of Business, New York University) per 3.000 miliardi di dollari (circa il 20% del Pil Usa) di perdite del sistema finanziario internazionale.
Chi ha pagato il 20% delle svalutazioni dei crediti bancari e chi pagherà il restante 80% dei 1.000 miliardi di dollari previsti dal Fmi? Resta difficile pensare che le banche si facciano carico in ultima istanza di queste perdite, perché così come hanno trasferito il rischio di credito con la tecnica delle cartolarizzazioni faranno probabilmente di tutto per trasferire le perdite operative da prestiti non restituiti. Infatti, ciò che sta accadendo oggi è che con la mano destra le banche accantonano sul bilancio i crediti insolventi, con la mano sinistra però chiedono aiuto ai fondi sovrani arabi e orientali che detengono un ammontare eccessivo di riserve in dollari derivanti dal petrolio (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Norvegia), dall’eccesso di esportazioni nette (Cina) acquistate in gran parte dai cittadini americani o dalla presenza di un rilevante surplus fiscale (Singapore). Il risultato di questa operazione potrà essere l’azzeramento del saldo finanziario delle banche – le perdite saranno in gran parte ripianate dall’ingresso dei fondi sovrani in agenzie finanziarie statunitensi – con il fiorire dei matrimoni multietnici tra banche occidentali e investitori governativi stranieri. Tra i fondi sovrani più attivi in queste “operazioni salvataggio” troviamo quello di Dubai che tra l’altro detiene anche il 5% della Ferrari e che ha investito in Deutsche bank; quello di Abu Dhabi entrato con 7,5 miliardi in Citigroup; quello di Singapore che ha fatto da salvagente all’istituto elevetico Ubs e alle banche d’affari Merril Lynch e Barclays.
Banche, finanziarie e agenzie di rating - corresponsabili di gravi comportamenti non trasparenti nel trasferimento del rischio in tutto il mondo - sembrano averla fatta franca. A venire in aiuto sono stati due importanti strumenti pubblici come la nazionalizzazione (caso Northen Rock) o i fondi di investimento controllati da alcuni governi sovrani. Un ulteriore fallimento del mercato?

venerdì 20 giugno 2008

41ma puntata. Dpef, Finanziaria, Bilancio

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mercoledì 11 giugno 2008

40ma puntata. Robin Hood Tax

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mercoledì 4 giugno 2008

39ma puntata. Sconto sui mutui?

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L'annunciato accordo tra Abi e Governo sulla rinegoziazione dei mutui a tasso variabile, accesi prima del 2007, è un puro gioco di prestigio. Il presupposto da cui partire è che le banche sono intermediari finanziari nati per trasferire rischi e scadenze, ma non per fare sconti. Da un lato le banche consentono di risparmiare subito la differenza tra la rata originaria e quella costante del nuovo contratto; dall’altro però su questo risparmio, che può essere visto come una quota interessi, fa maturare degli interessi pari all’Irs maggiorato dell’0,5%. Forse una pratica occulta di anatocismo?

mercoledì 28 maggio 2008

38ma puntata. Quale ritorno al nucleare?

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Dalla rubrica "Occhio Indiscreto" tenuta da Marco Marcatili su Conquiste del Lavoro, unico quotidiano europeo sul lavoro pubblicato dalla Cisl.

mercoledì 21 maggio 2008

37ma puntata. Questione salariale

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giovedì 15 maggio 2008

36ma puntata. Alcuni fatti economici eclatanti

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mercoledì 7 maggio 2008

35ma puntata. Flessicurezza

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Ho ricevuto un'interessante lettera da Claudio Aleotti (26 anni) che racconta di un incontro a Roma con "Miss Flessibilità".


Sono d’accordo in larga parte con l’analisi di fondo della lettera, sono però per chiamare le cose con nomi diversi. E questo passaggio non è solo un problema terminologico, perché evoca le responsabilità che ci sono dietro alcune scelte.
1. C’è ancora confusione tra flessibilità e precarietà, e se tale confusione è preoccupante fra i decisori pubblici lo è ancora di più se a generarla sono i giovani che la vivono in prima persona. La precarietà, della quale si parla per l'80% della lettera, costituisce una delle possibili risposte alle esigenze plausibili di flessibilità che può avere l'impresa moderna che a sua volta è intrappolata nella filiera produttiva a monte e a valle e dipende dalle scelte di altre imprese che vengono prima e dopo di lei. Inoltre, anche in Francia e Spagna c'è molta flessibilità, ma la loro risposta non è stata la creazione di lavori atipici – una sorta di precarietà all’italiana - piuttosto un investimento massiccio in mobilità da un lavoro all'altro attraverso un accompagnamento concreto sia economico che educativo.
2. Chi ha creato la flessibilità e chi ha creato la precarietà? Questo è il punto dove forse ho trovato maggiori refusi lettera aperta pubblicata sul mio sito. La flessibilità è un normale proseguimento di una integrazione dei mercati e di una volontà di arrivare a una globalizzazione più matura. Quindi direi che la flessibilità è un prodotto di qualsiasi economia di mercato che si evolve. La precarietà invece è il prodotto di una visione lobbistica proveniente dal mondo delle imprese – tradotta con la legge 30 del 2003. Quindi direi che la precarietà è il prodotto del capitalismo. E abbiamo imparato che l'economia di mercato non coincide con l'economia capitalistica. La Germania, e oggi la Spagna, ha molto mercato, mentre l'Inghilterra ha molto capitalismo. Gli Stati Uniti hanno molto mercato e molto capitalismo.
Non spero di avere vinto, spero però di averti convinto perché solo delle analisi supportate da una buona terminologia e da un buon riferimento ai fatti economici può fare presa nel mondo odierno. Non c’è spazio per improvvisazioni e dobbiamo fare tesoro delle esperienze altrui per non rimanere intrappolati negli schemi ideologici con cui noi giovani siamo vissuti anche solo per poco tempo.
Ma venendo tua domanda di fondo – che evidenzia una perdita di speranza oltre che un’aspettativa comprensibile di sfiducia nei confronti della mia risposta – come cambiare lo stato delle cose? Come cambiarle da domani mattina e non tanto in virtù di chissà quale modello teorico?
Al momento il modo più intelligente è prendere spunto da come gli altri Paesi europei hanno risposto all’esigenza di flessibilità senza creare una precarietà strutturale nel sistema. In particolare prendere spunto dalla flessicurezza attuata in Danimarca – riferimento anche per la Commissione Europea – e creare una via italiana per debellare il virus della precarietà ma nel contempo essere aperti alle esigenze dell’impresa post-moderna, realizzare un processo di qualificazione del lavoro e assicurare un sistema di protezione sociale. Nella puntata del 7 maggio 2008 trovi alcune semplici azioni proposte per attuare il passaggio da una società precaria quantomeno ad una società decente alla Margalit Avishai dove le istituzioni siano le prime a non umiliare le persone che vivono nella stessa comunità.

mercoledì 30 aprile 2008

34ma puntata. Precarietà

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BUON PRIMO MAGGIO...
MA A CHI?


Una festa del lavoro...
non inclusiva dei 45enni che perdono il posto del lavoro e non riescono a reinserirsi nel mercato del lavoro è
insignificante
,
non inclusiva dei giovani intrappolati in lavoretti è
vecchia
,
non inclusiva degli imprenditori che lavorano è
ideologica
.

mercoledì 16 aprile 2008

33ma puntata. Anno zero del governo Pdl-Lega Nord

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mercoledì 9 aprile 2008

32ma puntata. L'economia italiana al voto

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mercoledì 2 aprile 2008

31ma puntata. Banche

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mercoledì 26 marzo 2008

30ma puntata. Ricchezza

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mercoledì 19 marzo 2008

29ma puntata. Protezionismo

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mercoledì 12 marzo 2008

28ma puntata. Settore calzaturiero

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mercoledì 5 marzo 2008

27ma puntata. Donne nelle imprese

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