mercoledì 25 giugno 2008

42ma puntata. Conto subprime

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
È difficile stimare quanto valgono le perdite complessive del sistema creditizio, assicurativo e finanziario internazionale intaccato dal virus dei subprime: quasi 1.000 miliardi di dollari secondo il Fmi, ma il conto finale chi lo paga?
Le negoziazioni degli strumenti finanziari strutturati, con al loro interno il baco subprime, hanno subito una crescita esponenziale in tutto il mondo, grazie anche al loro scambio in mercati non regolamentati e poco trasparenti. In aggiunta, stando al solo settore bancario, gli stessi istituti di credito statunitensi erogatori di mutui residenziali hanno difficoltà a stimare l’ammontare dei crediti potenzialmente insolvibili da mettere in bilancio nella voce svalutazione crediti. Per avere dei calcoli affidabili bisognerà aspettare la fine dell’estate, quando scatterà per un alto numero di mutui la seconda tranche di pagamenti (a uno, tre, cinque o sette dall’apertura di un mutuo), per vedere quanti mutuatari continueranno ancora a pagare dopo avere superatole rate della prima tranche tenute volutamente basse dalle banche e finanziarie statunitensi per attirare un grande numero di clienti.
Autorevoli personaggi e organizzazioni internazionali hanno provato a lanciare delle cifre sulla bolla subprime, in un gioco a rialzo che ormai dura da nove mesi. A poche settimane dallo scoppio della crisi, nell’estate 2007, il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, dichiarava che le perdite legate alla crisi dei mutui sarebbero state di circa 100 miliardi di dollari e che un pacchetto di incentivi significativi all’economia statunitense da parte della Casa Bianca non avrebbe dovuto essere inferiore a quella cifra. A novembre 2007, però, l’Ocse diffondeva la prima stima tra 200 e 300 miliardi di euro di perdite potenziali da mutui subprime, cifra che durante un meeting presso l’organizzazione parigina ad aprile 2008 è stata rivista da una forbice di perdita complessiva tra 350 e 420 miliardi di dollari. Numeri ancora molto ottimisti se paragonati al costo complessivo di 945 miliardi di dollari - stimati dal Fmi il mese scorso - per ripianare la crisi innescata dal virus dei subprime. Ad oggi i principali istituti finanziari del mondo hanno accantonato soltanto un quinto della perdita potenziale indicata dal Fmi (circa 200 miliardi dei 1.000 indicati come perdita potenziale) e il conto rischia di diventare esorbitante se dovessero verificarsi le previsioni catastrofiche dell’economista Nouriel Roubini (Stern School of Business, New York University) per 3.000 miliardi di dollari (circa il 20% del Pil Usa) di perdite del sistema finanziario internazionale.
Chi ha pagato il 20% delle svalutazioni dei crediti bancari e chi pagherà il restante 80% dei 1.000 miliardi di dollari previsti dal Fmi? Resta difficile pensare che le banche si facciano carico in ultima istanza di queste perdite, perché così come hanno trasferito il rischio di credito con la tecnica delle cartolarizzazioni faranno probabilmente di tutto per trasferire le perdite operative da prestiti non restituiti. Infatti, ciò che sta accadendo oggi è che con la mano destra le banche accantonano sul bilancio i crediti insolventi, con la mano sinistra però chiedono aiuto ai fondi sovrani arabi e orientali che detengono un ammontare eccessivo di riserve in dollari derivanti dal petrolio (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Norvegia), dall’eccesso di esportazioni nette (Cina) acquistate in gran parte dai cittadini americani o dalla presenza di un rilevante surplus fiscale (Singapore). Il risultato di questa operazione potrà essere l’azzeramento del saldo finanziario delle banche – le perdite saranno in gran parte ripianate dall’ingresso dei fondi sovrani in agenzie finanziarie statunitensi – con il fiorire dei matrimoni multietnici tra banche occidentali e investitori governativi stranieri. Tra i fondi sovrani più attivi in queste “operazioni salvataggio” troviamo quello di Dubai che tra l’altro detiene anche il 5% della Ferrari e che ha investito in Deutsche bank; quello di Abu Dhabi entrato con 7,5 miliardi in Citigroup; quello di Singapore che ha fatto da salvagente all’istituto elevetico Ubs e alle banche d’affari Merril Lynch e Barclays.
Banche, finanziarie e agenzie di rating - corresponsabili di gravi comportamenti non trasparenti nel trasferimento del rischio in tutto il mondo - sembrano averla fatta franca. A venire in aiuto sono stati due importanti strumenti pubblici come la nazionalizzazione (caso Northen Rock) o i fondi di investimento controllati da alcuni governi sovrani. Un ulteriore fallimento del mercato?

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