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La tanto temuta recessione è arrivata. Stando ai dati del Centro Studi Confindustria sarebbero il secondo e il terzo i due trimestri consecutivi di variazione negativa del Pil reale – rispettivamente di -0,4% e -0,5% rispetto ai trimestri precedenti – che decretano per l’Italia una recessione in senso tecnico. Situazioni analoghe a quella italiana sono in Germania e Francia, ben più gravi invece in Spagna (dove la bolla immobiliare è scoppiata realmente e non solo in borsa come in Italia), Gran Bretagna e Russia (che risentono molto della non appartenenza all’area euro).
Da un lato c’è chi sostiene che la recessione sia dovuta soltanto alle ricadute delle tensioni finanziarie mondiali sull’economia reale domestica soprattutto in un sistema economico italiano molto orientato al commercio estero, dall’altro lato invece chi vede l’indebolimento dell’economia reale italiana indipendente dallo scossone finanziario globale che certamente ha accelerato e amplificato il percorso vero la recessione economica.
Non è un problema formale, in Italia c’erano già i sintomi sostanziali che anticipavano questa recessione a prescindere dall’andamento delle borse: diminuzione degli ordinativi industriali; livelli di attività produttiva più bassi di quelli che si sarebbero potuti ottenere usando completamente ed efficientemente tutte le risorse a disposizione; aumento vertiginoso del ricorso alla cassa integrazione guadagni (Cig) da parte delle imprese in stato di difficoltà e dissesto; pressione per una riduzione del tasso di interesse in grado di incentivare le imprese a riprendere dai cassetti i piani di investimenti (fermi non tanto per l’insufficienza di credito bancario, quanto più per il deteriorarsi della fiducia e del rischio imprenditoriali); rallentamento del tasso di inflazione core (esclude le componenti più volatili, energetici e alimentari) come conseguenza di una minore domanda interna.
Non è la recessione il pericolo maggiore da evitare, essa può diventare una cura necessaria delle malattie endemiche di un sistema economico troppo chiuso ai processi creativi e innovativi, all’educazione di capitale umano e sociale, e alle sfide di un modo diverso di fare impresa, di fare banca e di partecipare al mercato. Gli Stati Uniti, dopo il crollo della new economy, hanno iniziato a rifiutare una recessione necessaria inondando i mercati di liquidità, incentivando i consumatori a un eccessiva esposizione debitoria, portando il dollaro a livelli molto bassi tali da amplificare il problema del cosiddetto deficit gemelli (alto debito pubblico e saldo negativo delle partite correnti nella bilancia dei pagamenti), generando una bolla speculativa immobiliare (si pensi ai 14 trilioni di dollari di mutui ipotecari subprime in circolazione) e finanziaria (si pensi ai 62 trilioni di dollari di prodotti derivati in circolazione, in alcuni casi detenuti inconsapevolmente da famiglie, imprese ed enti locali). A preoccupare, dunque, non è una recessione formale, ma una sostanziale mancanza di una strategia comune di medio termine che generi reazioni positive e nuove speranze nell’affrontare un futuro sempre più difficile sul piano culturale prima ancora che economico.
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