In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
Ho ricevuto un'interessante lettera da Claudio Aleotti (26 anni) che racconta di un incontro a Roma con "Miss Flessibilità".
Sono d’accordo in larga parte con l’analisi di fondo della lettera, sono però per chiamare le cose con nomi diversi. E questo passaggio non è solo un problema terminologico, perché evoca le responsabilità che ci sono dietro alcune scelte.
1. C’è ancora confusione tra flessibilità e precarietà, e se tale confusione è preoccupante fra i decisori pubblici lo è ancora di più se a generarla sono i giovani che la vivono in prima persona. La precarietà, della quale si parla per l'80% della lettera, costituisce una delle possibili risposte alle esigenze plausibili di flessibilità che può avere l'impresa moderna che a sua volta è intrappolata nella filiera produttiva a monte e a valle e dipende dalle scelte di altre imprese che vengono prima e dopo di lei. Inoltre, anche in Francia e Spagna c'è molta flessibilità, ma la loro risposta non è stata la creazione di lavori atipici – una sorta di precarietà all’italiana - piuttosto un investimento massiccio in mobilità da un lavoro all'altro attraverso un accompagnamento concreto sia economico che educativo.
2. Chi ha creato la flessibilità e chi ha creato la precarietà? Questo è il punto dove forse ho trovato maggiori refusi lettera aperta pubblicata sul mio sito. La flessibilità è un normale proseguimento di una integrazione dei mercati e di una volontà di arrivare a una globalizzazione più matura. Quindi direi che la flessibilità è un prodotto di qualsiasi economia di mercato che si evolve. La precarietà invece è il prodotto di una visione lobbistica proveniente dal mondo delle imprese – tradotta con la legge 30 del 2003. Quindi direi che la precarietà è il prodotto del capitalismo. E abbiamo imparato che l'economia di mercato non coincide con l'economia capitalistica. La Germania, e oggi la Spagna, ha molto mercato, mentre l'Inghilterra ha molto capitalismo. Gli Stati Uniti hanno molto mercato e molto capitalismo.
Non spero di avere vinto, spero però di averti convinto perché solo delle analisi supportate da una buona terminologia e da un buon riferimento ai fatti economici può fare presa nel mondo odierno. Non c’è spazio per improvvisazioni e dobbiamo fare tesoro delle esperienze altrui per non rimanere intrappolati negli schemi ideologici con cui noi giovani siamo vissuti anche solo per poco tempo.
Ma venendo tua domanda di fondo – che evidenzia una perdita di speranza oltre che un’aspettativa comprensibile di sfiducia nei confronti della mia risposta – come cambiare lo stato delle cose? Come cambiarle da domani mattina e non tanto in virtù di chissà quale modello teorico?
Al momento il modo più intelligente è prendere spunto da come gli altri Paesi europei hanno risposto all’esigenza di flessibilità senza creare una precarietà strutturale nel sistema. In particolare prendere spunto dalla flessicurezza attuata in Danimarca – riferimento anche per la Commissione Europea – e creare una via italiana per debellare il virus della precarietà ma nel contempo essere aperti alle esigenze dell’impresa post-moderna, realizzare un processo di qualificazione del lavoro e assicurare un sistema di protezione sociale. Nella puntata del 7 maggio 2008 trovi alcune semplici azioni proposte per attuare il passaggio da una società precaria quantomeno ad una società decente alla Margalit Avishai dove le istituzioni siano le prime a non umiliare le persone che vivono nella stessa comunità.
2. Chi ha creato la flessibilità e chi ha creato la precarietà? Questo è il punto dove forse ho trovato maggiori refusi lettera aperta pubblicata sul mio sito. La flessibilità è un normale proseguimento di una integrazione dei mercati e di una volontà di arrivare a una globalizzazione più matura. Quindi direi che la flessibilità è un prodotto di qualsiasi economia di mercato che si evolve. La precarietà invece è il prodotto di una visione lobbistica proveniente dal mondo delle imprese – tradotta con la legge 30 del 2003. Quindi direi che la precarietà è il prodotto del capitalismo. E abbiamo imparato che l'economia di mercato non coincide con l'economia capitalistica. La Germania, e oggi la Spagna, ha molto mercato, mentre l'Inghilterra ha molto capitalismo. Gli Stati Uniti hanno molto mercato e molto capitalismo.
Non spero di avere vinto, spero però di averti convinto perché solo delle analisi supportate da una buona terminologia e da un buon riferimento ai fatti economici può fare presa nel mondo odierno. Non c’è spazio per improvvisazioni e dobbiamo fare tesoro delle esperienze altrui per non rimanere intrappolati negli schemi ideologici con cui noi giovani siamo vissuti anche solo per poco tempo.
Ma venendo tua domanda di fondo – che evidenzia una perdita di speranza oltre che un’aspettativa comprensibile di sfiducia nei confronti della mia risposta – come cambiare lo stato delle cose? Come cambiarle da domani mattina e non tanto in virtù di chissà quale modello teorico?
Al momento il modo più intelligente è prendere spunto da come gli altri Paesi europei hanno risposto all’esigenza di flessibilità senza creare una precarietà strutturale nel sistema. In particolare prendere spunto dalla flessicurezza attuata in Danimarca – riferimento anche per la Commissione Europea – e creare una via italiana per debellare il virus della precarietà ma nel contempo essere aperti alle esigenze dell’impresa post-moderna, realizzare un processo di qualificazione del lavoro e assicurare un sistema di protezione sociale. Nella puntata del 7 maggio 2008 trovi alcune semplici azioni proposte per attuare il passaggio da una società precaria quantomeno ad una società decente alla Margalit Avishai dove le istituzioni siano le prime a non umiliare le persone che vivono nella stessa comunità.
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