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Qualche imprenditore locale poco oculato sostiene che “la calzatura non è in difficoltà” e che “resta uno dei settori più invidiati in Italia” – magari circoscrivendo l’analisi territoriale esclusivamente al successo della propria realtà aziendale – ma come mai ben il 40% dei figli degli imprenditori calzaturieri non intendono assolutamente mettersi in gioco su questo settore economico?
In questi anni il sistema calzaturiero fermano si è affidato eccessivamente agli spiragli di quei pochi numeri positivi diffusi a ridosso di ogni manifestazione fieristica, ma ogni vecchio economista sa che “se li torturi abbastanza, i dati ti confesseranno quello che vuoi sapere”. In Emilia-Romagna dove i numeri sono davvero positivi – reddito pro-capite più alto e grado di diseguaglianza più basso in Italia, alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, 45% di imprese che investono in R&S, etc - ci si interroga su quale ruolo strategico abbiano produzioni come la meccanica in un mondo che cambia progressivamente la propria divisione internazionale del lavoro e percorre la strada dei servizi avanzati dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle energie alternative, etc. Nel nostro territorio, invece, da un decennio “si tira per la giacchetta” la calzatura che per fortuna di tutti ha fatto il suo corso, ma a cui purtroppo non si è saputo dare un futuro perché il terrore per la Cindia ha avuto la meglio sulla creazione di centri direzionali, sullo sviluppo di politiche cooperative, sull’ideazione di un sistema di riqualificazione professionale e di trasferimento della conoscenza applicata alla calzatura.
Secondo una ricerca dell’Università Politecnica delle Marche circa il 40% dei figli delle aziende dell’area “scarponia” hanno interessi lavorativi diversi dai propri padri. La stessa percentuale evidenzia un problema tutto italiano di passaggio generazionale, ma ad esempio è di gran lunga superiore al 12% dell’area “merlonia”.
Sono tre gli errori marchiani commessi a livello politico, imprenditoriale e sindacale che hanno reso il settore calzaturiero fermano-maceratese uno dei meno appetibili soprattutto per i giovani.
Il primo riguarda l’assetto e la dimensione d’impresa, troppo piccola e troppo poco valorizzante i talenti di un nuovo arrivato. Negli anni ’90 le imprese non hanno approfittato della crescita realizzata per trasformarsi e affrontare un problema di nanismo culturale ancor prima di quello dimensionale. Oggi, nelle fabbriche è evidente la netta separazione tra la struttura produttiva e quella decisionale, tra il capannone e l’ufficio. Inoltre, nel capannone non si sono valorizzate le maestranze, nell’ufficio tutte le funzioni sono rimaste in capo all’imprenditore che non ha saputo assorbire validi collaboratori provenienti dal mondo universitario (il che avrebbe significato poter contare su dei potenziali dirigenti d’azienda diversi dai propri figli).
Il secondo errore concerne l’incapacità di tradurre in pratica le forme di investimento in capitale umano, maestranze e quadri d’azienda, diverse dal mero incentivo monetario (molto spesso risultano migliori gli incentivi legati alla creazione di un ambiente di lavoro di stima e fiducia reciproca). Le imprese non hanno mai investito in capitale umano perché non hanno capito che nell’epoca attuale del post-fordismo e della società della conoscenza il lavoro creativo e specializzato conta più della macchina e del capitale. Investire nelle persone, non vuol dire creare asili nido, mense e palestre, ma rendere il lavoratore partecipe del gioco economico, costruire un ambiente di lavoro decente, riuscire ad estrapolare la creatività dell’ultimo arrivato, smobilizzare la conoscenza tacita di ciascun lavoratore, ovvero non rivelata perché legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto.
Il terzo errore, conseguenza diretta dei primi due, è stato di non aver potuto recepire i vantaggi derivanti dall’apertura dei mercati. È evidente, infatti, che il non aver rafforzato il sistema delle relazioni industriali sul territorio, il non aver creato una solida struttura di impresa e una specializzazione del lavoro creativa e flessibile ha fatto sì che il gioco della globalizzazione ha migliorato solo la condizione di benessere dei lavoratori qualificati peggiorando, al contempo, quella dei lavoratori poco qualificati e che soffrono l’invecchiamento tecnologico.
Essere ottimisti per partito presto può servire a poco se nella nuova provincia non condividiamo la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.
In questi anni il sistema calzaturiero fermano si è affidato eccessivamente agli spiragli di quei pochi numeri positivi diffusi a ridosso di ogni manifestazione fieristica, ma ogni vecchio economista sa che “se li torturi abbastanza, i dati ti confesseranno quello che vuoi sapere”. In Emilia-Romagna dove i numeri sono davvero positivi – reddito pro-capite più alto e grado di diseguaglianza più basso in Italia, alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, 45% di imprese che investono in R&S, etc - ci si interroga su quale ruolo strategico abbiano produzioni come la meccanica in un mondo che cambia progressivamente la propria divisione internazionale del lavoro e percorre la strada dei servizi avanzati dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle energie alternative, etc. Nel nostro territorio, invece, da un decennio “si tira per la giacchetta” la calzatura che per fortuna di tutti ha fatto il suo corso, ma a cui purtroppo non si è saputo dare un futuro perché il terrore per la Cindia ha avuto la meglio sulla creazione di centri direzionali, sullo sviluppo di politiche cooperative, sull’ideazione di un sistema di riqualificazione professionale e di trasferimento della conoscenza applicata alla calzatura.
Secondo una ricerca dell’Università Politecnica delle Marche circa il 40% dei figli delle aziende dell’area “scarponia” hanno interessi lavorativi diversi dai propri padri. La stessa percentuale evidenzia un problema tutto italiano di passaggio generazionale, ma ad esempio è di gran lunga superiore al 12% dell’area “merlonia”.
Sono tre gli errori marchiani commessi a livello politico, imprenditoriale e sindacale che hanno reso il settore calzaturiero fermano-maceratese uno dei meno appetibili soprattutto per i giovani.
Il primo riguarda l’assetto e la dimensione d’impresa, troppo piccola e troppo poco valorizzante i talenti di un nuovo arrivato. Negli anni ’90 le imprese non hanno approfittato della crescita realizzata per trasformarsi e affrontare un problema di nanismo culturale ancor prima di quello dimensionale. Oggi, nelle fabbriche è evidente la netta separazione tra la struttura produttiva e quella decisionale, tra il capannone e l’ufficio. Inoltre, nel capannone non si sono valorizzate le maestranze, nell’ufficio tutte le funzioni sono rimaste in capo all’imprenditore che non ha saputo assorbire validi collaboratori provenienti dal mondo universitario (il che avrebbe significato poter contare su dei potenziali dirigenti d’azienda diversi dai propri figli).
Il secondo errore concerne l’incapacità di tradurre in pratica le forme di investimento in capitale umano, maestranze e quadri d’azienda, diverse dal mero incentivo monetario (molto spesso risultano migliori gli incentivi legati alla creazione di un ambiente di lavoro di stima e fiducia reciproca). Le imprese non hanno mai investito in capitale umano perché non hanno capito che nell’epoca attuale del post-fordismo e della società della conoscenza il lavoro creativo e specializzato conta più della macchina e del capitale. Investire nelle persone, non vuol dire creare asili nido, mense e palestre, ma rendere il lavoratore partecipe del gioco economico, costruire un ambiente di lavoro decente, riuscire ad estrapolare la creatività dell’ultimo arrivato, smobilizzare la conoscenza tacita di ciascun lavoratore, ovvero non rivelata perché legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto.
Il terzo errore, conseguenza diretta dei primi due, è stato di non aver potuto recepire i vantaggi derivanti dall’apertura dei mercati. È evidente, infatti, che il non aver rafforzato il sistema delle relazioni industriali sul territorio, il non aver creato una solida struttura di impresa e una specializzazione del lavoro creativa e flessibile ha fatto sì che il gioco della globalizzazione ha migliorato solo la condizione di benessere dei lavoratori qualificati peggiorando, al contempo, quella dei lavoratori poco qualificati e che soffrono l’invecchiamento tecnologico.
Essere ottimisti per partito presto può servire a poco se nella nuova provincia non condividiamo la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.
1 commento:
Perché continuare a parlare di un settore ormai morto da anni? Lasciamolo riposare in pace.
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