L’ansia di ripresa e i retaggi dell’asma cronico post-crisi internazionale stanno portando in questi mesi a una guerra di numeri sul piano mediatico che può per esempio dare l’Italia in ripresa quando viene comunicato il rallentamento della richiesta della cassa integrazione e dell’andamento della produzione industriale, ma che la danno nuovamente in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010. Perché non possiamo ancora dirci fuori dal tunnel? In primo luogo, la crisi finirà tecnicamente quando il Paese tornerà sui livelli pre-crisi di investimenti (diminuiti dal 21,8% sul Pil del 2007 al 17,4% previsti per il 2010), disoccupazione (cresciuta dal 6,1% del 2007 al 10,5% prevista per il 2010) e debito pubblico (verso il 130% del Pil nel 2010, dal 104,5% del 2007). Inoltre, la liquidità pubblica immessa sul sistema economico non è stata finora incanalata nei circuiti reali (erogazione di credito a famiglie e imprese) e, attraverso i veicoli del risparmio gestito e degli hedge funds, ha causato l’attuale bolla borsistica. Quel giorno in cui le banche centrali, statunitense ed europea in particolare, decideranno di drenare l’enorme massa monetaria in circolazione verrà provocato inevitabilmente uno shock sulle borse mondiali che spegnerà l’euforia attuale ingiustificata e, come abbiamo imparato, si riverserà non ancora una volta sul sistema produttivo.
mercoledì 28 ottobre 2009
mercoledì 21 ottobre 2009
mercoledì 14 ottobre 2009
92ma puntata. Tramonta il Pil
Da molti anni alcuni economisti meno ortodossi lo ripetono in tutte le salse, ma è stata necessaria una formale commissione di venticinque economisti di fama mondiale per giungere alla stessa conclusione di fondo: il prodotto interno lordo (Pil) non può costituire l’unico indicatore per valutare lo stato di salute di un Paese, non è un indicatore falso, ma certamente è stato mitizzato e spesso utilizzato male nei processi di policy making. Per andare oltre la condanna del Pil, la stessa commissione – voluta da Sarkozy e presieduta dal Nobel Stiglitz – ha tenuto a sottolineare che non sempre la “religione delle cifre” aiuta a mettere bene a fuoco la realtà e, dunque, a prendere delle decisioni durature e responsabili. È ormai noto a tutti come l’ansia di ripresa e i retaggi dell’asma cronico post crisi internazionale stanno portando in questi giorni a una guerra di numeri sul piano mediatico che può per esempio dare l’Italia in ripresa quando viene comunicato il rallentamento della richiesta degli interventi e dell’andamento negativo della produzione industriale, ma che la danno in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010.
In modo particolare, la capacità del Pil di esprimere le potenzialità di sviluppo economico è sempre più ridotta nella società postmoderna. Sebbene questo indice misuri il valore di tutti i beni servizi prodotti all’interno di un territorio, è considerato ormai inadeguato a rappresentare lo stato di salute di un’economia, di un territorio, di una società almeno per due ragioni essenziali. La prima è che non tiene conto di una serie di beni e servizi molto importanti per una società, detti beni relazionali, che non passano attraverso il meccanismo di mercato (es. assistenza agli anziani, cura dei bambini, ecc). Una società moderna che sperimenta il principio di reciprocità, ad esempio attraverso una capillare rete di volontariato, dovrebbe ritenersi sviluppata, ma il Pil non ne tiene conto. La seconda è che non incorpora gli investimenti intangibili in grado di accumulare capitale umano (insieme delle capacità e delle abilità acquisite dalle persone) e sociale (insieme delle istituzioni, delle reti di associazionismo civico e delle norme che regolano la convivenza e le relazioni fra persone), considerati oggi due fattori produttivi essenziali per lo sviluppo di una “società decente”. Questo è il motivo principale per cui fino ad ora gli assetti legislativi (rif. leggi 1329/65 Sabatini e 598/94) si sono concentrati nel concedere incentivi alle imprese solo per gli investimenti tangibili (es. acquisto capannoni, macchinari, etc) che costituiscono una parte molto rilevante del Pil.
Sia pur in ritardo rispetto all’evoluzione del pensiero economico, sull’inadeguatezza del Pil si è convinta anche la Banca d’Italia che, nella consueta presentazione annuale delle note regionali sull’economia, ha iniziato dal 2007 a diffondere i dati numerici sull’andamento congiunturale affiancati da quelli sul grado di capitale umano, lasciando un po’ da parte la sua tradizionale funzione di controllo della quantità di moneta e vigilanza sui mercati creditizi. Siamo in un’epoca in cui creare ricchezza vuol dire investire nell’educazione del capitale umano che accrescerà la produttività del lavoro futura. Tuttavia, la conoscenza da sola non basta, perché spesso è tacita o non rilevata, legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto, e solo un adeguato stock di capitale sociale è in grado di smobilizzarla.
Continuare a prevedere la crescita del Pil nel nei prossimi anni potrebbe rivelarsi una perdita di tempo se tutti non condividiamo questa visione, ma soprattutto la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto in Italia sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.
mercoledì 7 ottobre 2009
91ma puntata. Casa, ecco il piano B
Ad oggi sono undici le Regioni che, in attuazione dell’intesa Stato-Regioni dello scorso 31 marzo, hanno approvato un proprio piano casa. Ma quanti, tra i piani già licenziati dai consigli regionali, intervengono sia pure parzialmente sul disagio abitativo? Passando in rassegna le undici leggi regionali risulta molto difficile riscontrare degli interventi strutturati in tema si edilizia sociale. Alcune Regioni – come Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte – hanno previsto soltanto degli interventi sporadici sulla riqualificazione del patrimonio edilizio sociale esistente o sulla concessione di nuove opportunità abitative alle famiglie meno abbienti. In tutte le altre Regioni non sono riscontrabili particolari iniziative di social housing, ma di fatto il Governo aveva solo richiesto loro di approvare, entro 90 giorni dalla data dell’accordo, proprie leggi in materia urbanistica contenenti eventuali aumenti di volumetria (o anche possibilità di demolizione e ricostruzione) riservati essenzialmente a chi è già proprietario di villette e palazzine.
Anche il Governo alla fine si è accorto che il piano casa – così come formulato originariamente "Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche" e che potrebbe essere meglio etichettato come “piano villette” – risponde più alla necessità di procacciare nuove commesse alle piccole e medie imprese edili colpite dalla crisi che all’esigenza impellente di offrire a un numero crescente di famiglie una risposta al disagio abitativo, con tutte le sfumature che esso rappresenta ma che senza dubbio trascende dalla voglia di veranda o della stanza aggiuntiva da parte delle famiglie italiane. Ed è per questo motivo che, nell’estate scorsa e dopo che la maggioranza delle Regioni aveva chiuso la partita sul proprio piano casa, il Governo ha varato un ambizioso “Piano straordinario per l'edilizia residenziale pubblica” (Dcpm del 16 luglio 2009) per affrontare in maniera organica il disagio abitativo, dalla difficoltà di accesso a valori immobiliari di acquisto e di locazione sempre più importanti al degrado derivante da fenomeni di alta tensione abitativa. Il nuovo piano prevede di offrire 100mila nuovi alloggi sociali in affitto a canone moderato a quella fascia di famiglie (anziani, giovani coppie, immigrati regolari, etc) non eccessivamente povere da rientrare tra gli indigenti e non sufficientemente solide economicamente per poter corrispondere un canone libero di mercato. Senza dubbio l’iniziativa rappresenta un forte impegno da parte del Governo per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato nell’ultimo decennio sull’impegno pubblico nel social housing, ma le perplessità sono rappresentate dal finanziamento delle iniziative – vista la scarsità delle risorse pubbliche e l’impegno di parte di esse nelle leggi regionali già varate per “piano villette”; dalla capacità di coinvolgimento di soggetti privati – fondazioni, cooperative, enti non profit, fondi immobiliari, etc – in iniziative di business sociale che in molti casi non consentono un ritorno dall’investimento più elevato della dinamica inflattiva; e, soprattutto, dall’orizzonte temporale di almeno medio periodo (5 anni previsti sulla carta) entro cui si vedranno concretamente realizzati gli obiettivi dell’iniziativa.
Anche il Governo alla fine si è accorto che il piano casa – così come formulato originariamente "Misure urgenti in materia di edilizia, urbanistica ed opere pubbliche" e che potrebbe essere meglio etichettato come “piano villette” – risponde più alla necessità di procacciare nuove commesse alle piccole e medie imprese edili colpite dalla crisi che all’esigenza impellente di offrire a un numero crescente di famiglie una risposta al disagio abitativo, con tutte le sfumature che esso rappresenta ma che senza dubbio trascende dalla voglia di veranda o della stanza aggiuntiva da parte delle famiglie italiane. Ed è per questo motivo che, nell’estate scorsa e dopo che la maggioranza delle Regioni aveva chiuso la partita sul proprio piano casa, il Governo ha varato un ambizioso “Piano straordinario per l'edilizia residenziale pubblica” (Dcpm del 16 luglio 2009) per affrontare in maniera organica il disagio abitativo, dalla difficoltà di accesso a valori immobiliari di acquisto e di locazione sempre più importanti al degrado derivante da fenomeni di alta tensione abitativa. Il nuovo piano prevede di offrire 100mila nuovi alloggi sociali in affitto a canone moderato a quella fascia di famiglie (anziani, giovani coppie, immigrati regolari, etc) non eccessivamente povere da rientrare tra gli indigenti e non sufficientemente solide economicamente per poter corrispondere un canone libero di mercato. Senza dubbio l’iniziativa rappresenta un forte impegno da parte del Governo per colmare il ritardo che l’Italia ha accumulato nell’ultimo decennio sull’impegno pubblico nel social housing, ma le perplessità sono rappresentate dal finanziamento delle iniziative – vista la scarsità delle risorse pubbliche e l’impegno di parte di esse nelle leggi regionali già varate per “piano villette”; dalla capacità di coinvolgimento di soggetti privati – fondazioni, cooperative, enti non profit, fondi immobiliari, etc – in iniziative di business sociale che in molti casi non consentono un ritorno dall’investimento più elevato della dinamica inflattiva; e, soprattutto, dall’orizzonte temporale di almeno medio periodo (5 anni previsti sulla carta) entro cui si vedranno concretamente realizzati gli obiettivi dell’iniziativa.
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