I prossimi libri di storia economica racconteranno, più o meno in questi termini, la prima crisi del nuovo millennio. “Le autorità governative sottovalutarono una crisi che, inizialmente, veniva circoscritta a qualche mutuo ipotecario di cittadini statunitensi non facoltosi. Poi, con il crollo della Aig, numero uno delle polizze statunitensi, anche il mercato assicurativo venne minato, ma, fino ad allora, le pensioni restarono ancora un tabù e ci fu un vuoto informativo su come i fondi privati statunitensi continuarono ad erogare pensioni dopo i dimezzamenti azionari e i crack obbligazionari. Così si passò da una crisi subprime ad una crisi di liquidità – a causa del piano Paulson per liberare le banche di tutte le attività tossiche – fino a ad arrivare, in pochi mesi, ad una crisi di insolvenza – risultato del piano dei governi europei di ricapitalizzare le banche entrando nella compagine azionaria senza diritto di voto.”
Fin qui tutto chiaro, ma poi cosa successe? La speranza è che dopo la carota (salvataggi bancari) si passi al bastone (regole del gioco semplici, chiare e verificabili) e che la storia della crisi continui con un concreto ritorno a un nuovo ordine economico globale. Da anni, infatti, soltanto una minoranza di studiosi invoca la necessità di un nuovo accordo alla Bretton Woods (cittadina statunitense in cui si tenne nel 1944 la famigerata conferenza di 730 delegati appartenenti a 44 nazioni che diede vita ad un nuovo sistema di regole commerciali e finanziarie, istituendo nel 1946 il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale). Ora che la crisi si è manifestata anche sotto gli occhi degli ottimisti poco informati, alcuni leader politici come Gordon Brown e Nicolas Sarkozy stanno provando a tracciare le basi per un nuovo accordo planetario e per riformare le istituzioni economiche proposte in un nuovo regolatore globale.
Sul piano culturale, una nuova Bretton Woods dovrebbe portare con sé l’idea di un mondo nel quale la crescita sia reale e non sostenuta dalla montagna dei debiti o drogata dalle pure innovazioni finanziarie non al servizio delle famiglie e delle imprese; un mondo nel quale i consumi delle famiglie aumentino solo al crescere reddito e non con la creatività delle formule commerciali e finanziarie; un mondo, infine, in cui di etica non si debba più parlare perché implicita nei comportamenti e nel buon senso di tutti gli agenti economici.
Sul piano dei tecnicismi sono già state proposte alcune regole essenziali per Bretton Woods 2: investire la banca centrale del ruolo assoluto di vigilanza, ridefinire il ruolo e il metodo delle agenzie di rating in modo tale che non risulti ancora che il controllato venga pagato dal controllore; definire di una nuova moneta mondiale, o paniere di monete, di riferimento diversa dal dollaro; regolamentare alcune prassi finanziaria tipiche del mondo anglosassone (vendite allo scoperto, cartolarizzazioni, negoziazioni over the counter, hedge funds, etc); ideare di nuovi piani globali marshalliani di cooperazione internazionale.
mercoledì 29 ottobre 2008
54ma puntata. Regole per una nuova Bretton Woods
In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
giovedì 23 ottobre 2008
53ma puntata. Volto delle nuove crisi
In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
C’è qualcosa di spaventosamente simile nelle due vicende che hanno segnato la storia economica mondiale e italiana, il crack finanziario statunitense e il dissesto di Alitalia.
In primo luogo, le due vicende sono state causate da errori umani e gravi responsabilità. Se ciò è ampiamente condiviso per il caso Alitalia, è meno intuitivo comprendere come questa crisi non sia figlia di una depressione reale preesistente, della fiducia o di un ineluttabile andamento ciclico della finanza, ma di gravi errori commessi da chi in questi stessi giorni intende far credere ai mercati di tutto il mondo che c’è un modo per curare questo crack finanziario. A tal proposito le parole di John Lanchster, figlio di un banchiere della city, sono illuminanti: «fin da piccolo sento parlare di questa bestia mitologica chiamata “panico bancario”. Se ne parlava spesso, ma nessuno l’aveva mai visto. Si dice che i banchieri ne siano terrorizzati, anche se mio padre ne parlava con una specie di perverso senso dell’umorismo. Era sempre il segno che qualcuno aveva fatto una cazzata e bella grossa. E a volta era anche il segno che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel sistema finanziario».
In secondo lungo, l’idea del governo Berlusconi che separando le buone attività (rilevate dalla Compagnia Aerea Italiana) dalle passività (rimaste sul groppone della collettività) si potesse creare un’impresa privata profittevole è la stessa di quella ideata dal piano di Paulson, Ministro del Tesoro Usa, secondo cui le banche torneranno a creare valore soltanto spogliandole delle loro potenziali passività, costituite dai mutui spazzatura e vendute a prezzo di mercato alle autorità statunitensi. Mentre nel caso Alitalia la speranza è che un nuovo management introduca criteri di economicità, efficacia ed efficienza diversi da quelli fino ad ora consolidati in aziende semi-pubbliche, nel mondo finanziario la cruda verità è che sin dalla loro nascita le banche hanno cambiato il loro mestiere e la loro utilità sociale. Ai tempi dei Monti di Pietà, sul finire del XIV secolo, le banche svolgevano due compiti fondamentali: anticipare la semina ai contadini e prestare denaro a chi avesse una buona idea imprenditoriale. Con l’avvento del capitalismo, sul finire del XIX secolo, l’attività bancaria si fondava nel concedere servizi tradizionali, primo fra tutti erogare mutui coperti da garanzie reali. Oggi, invece, nell’era dell’economia ipocrita e confusa le banche non sono più fabbriche del credito, che concedono prestiti, incassano interessi fino alla scadenza e lucrano sulla differenza tra il tasso passivo e quello attivo. È più redditizio aumentare l’attività di compravendita di titoli e commerciare i prestiti, accenderli ai clienti e venderli – in cambio di commissioni – ad altri intermediari finanziari specializzati in grado di impacchettare una serie di prestiti e collocarli sui mercati finanziari.
Per ultimo, i modi pragmatici di risolvere la vicenda Alitalia e quella finanziaria statunitense sembrano essere, agli occhi degli scettici, più l’inganno di regalare soldi ai ricchi che dalla volontà politica di offrire sul mercato le condizioni essenziali per uscire da una fase acuta di stallo. Se da un lato è vero che il mercato aereo è uno dei più difficili e complessi da affrontare, dall’altro non ci sono dubbi sui favori legislativi (deroga alle norme antitrust e applicazione delle legge Marzano) concessi alla cordata di imprenditori italiani e su rilevante trasferimento ai cittadini italiani dei debiti accumulati negli anni da Alitalia. Anche negli Stati Uniti, se è vero che sono stati aumentati a 250mila dollari (da 100mila) il livello dei depositi bancari garantiti, è altrettanto certo che il piano di aiuti da 700 miliardi di dollari varato dal governo Bush sarà maggiormente utilizzato per cancellare dai bilanci delle banche i crediti probabilmente inesigibili, aumentare il loro grado di salute e, dunque, il corso delle azioni di queste banche fino ad ora sfiduciate dai mercati. Inoltre, è stato calcolato che il piano di aiuti alle grandi banche costerà 2.300 dollari per ogni contribuente statunitense. Per questi motivi, è opinione diffusa negli Stati Uniti, soprattutto in alcuni ambienti accademici, che il piano Paulson serve a sostenere i milionari di Wall Street e non agricoltori, operai e insegnanti che vivono di prestiti e faticano a fare la spesa.
Nessun americano si immaginerebbe mai che negli Stati Uniti potesse accadere qualcosa di simile alla vicenda Alitalia, così come nessun italiano catastrofista scommetterebbe mai che in Italia si possa lasciare fallire una banca. Un cinese non avrebbe sorprese da tali comportamenti, un africano la chiamerebbe corruzione. Se questa è globalizzazione, “quello che verrà domani non me lo ricordo”.
In primo luogo, le due vicende sono state causate da errori umani e gravi responsabilità. Se ciò è ampiamente condiviso per il caso Alitalia, è meno intuitivo comprendere come questa crisi non sia figlia di una depressione reale preesistente, della fiducia o di un ineluttabile andamento ciclico della finanza, ma di gravi errori commessi da chi in questi stessi giorni intende far credere ai mercati di tutto il mondo che c’è un modo per curare questo crack finanziario. A tal proposito le parole di John Lanchster, figlio di un banchiere della city, sono illuminanti: «fin da piccolo sento parlare di questa bestia mitologica chiamata “panico bancario”. Se ne parlava spesso, ma nessuno l’aveva mai visto. Si dice che i banchieri ne siano terrorizzati, anche se mio padre ne parlava con una specie di perverso senso dell’umorismo. Era sempre il segno che qualcuno aveva fatto una cazzata e bella grossa. E a volta era anche il segno che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel sistema finanziario».
In secondo lungo, l’idea del governo Berlusconi che separando le buone attività (rilevate dalla Compagnia Aerea Italiana) dalle passività (rimaste sul groppone della collettività) si potesse creare un’impresa privata profittevole è la stessa di quella ideata dal piano di Paulson, Ministro del Tesoro Usa, secondo cui le banche torneranno a creare valore soltanto spogliandole delle loro potenziali passività, costituite dai mutui spazzatura e vendute a prezzo di mercato alle autorità statunitensi. Mentre nel caso Alitalia la speranza è che un nuovo management introduca criteri di economicità, efficacia ed efficienza diversi da quelli fino ad ora consolidati in aziende semi-pubbliche, nel mondo finanziario la cruda verità è che sin dalla loro nascita le banche hanno cambiato il loro mestiere e la loro utilità sociale. Ai tempi dei Monti di Pietà, sul finire del XIV secolo, le banche svolgevano due compiti fondamentali: anticipare la semina ai contadini e prestare denaro a chi avesse una buona idea imprenditoriale. Con l’avvento del capitalismo, sul finire del XIX secolo, l’attività bancaria si fondava nel concedere servizi tradizionali, primo fra tutti erogare mutui coperti da garanzie reali. Oggi, invece, nell’era dell’economia ipocrita e confusa le banche non sono più fabbriche del credito, che concedono prestiti, incassano interessi fino alla scadenza e lucrano sulla differenza tra il tasso passivo e quello attivo. È più redditizio aumentare l’attività di compravendita di titoli e commerciare i prestiti, accenderli ai clienti e venderli – in cambio di commissioni – ad altri intermediari finanziari specializzati in grado di impacchettare una serie di prestiti e collocarli sui mercati finanziari.
Per ultimo, i modi pragmatici di risolvere la vicenda Alitalia e quella finanziaria statunitense sembrano essere, agli occhi degli scettici, più l’inganno di regalare soldi ai ricchi che dalla volontà politica di offrire sul mercato le condizioni essenziali per uscire da una fase acuta di stallo. Se da un lato è vero che il mercato aereo è uno dei più difficili e complessi da affrontare, dall’altro non ci sono dubbi sui favori legislativi (deroga alle norme antitrust e applicazione delle legge Marzano) concessi alla cordata di imprenditori italiani e su rilevante trasferimento ai cittadini italiani dei debiti accumulati negli anni da Alitalia. Anche negli Stati Uniti, se è vero che sono stati aumentati a 250mila dollari (da 100mila) il livello dei depositi bancari garantiti, è altrettanto certo che il piano di aiuti da 700 miliardi di dollari varato dal governo Bush sarà maggiormente utilizzato per cancellare dai bilanci delle banche i crediti probabilmente inesigibili, aumentare il loro grado di salute e, dunque, il corso delle azioni di queste banche fino ad ora sfiduciate dai mercati. Inoltre, è stato calcolato che il piano di aiuti alle grandi banche costerà 2.300 dollari per ogni contribuente statunitense. Per questi motivi, è opinione diffusa negli Stati Uniti, soprattutto in alcuni ambienti accademici, che il piano Paulson serve a sostenere i milionari di Wall Street e non agricoltori, operai e insegnanti che vivono di prestiti e faticano a fare la spesa.
Nessun americano si immaginerebbe mai che negli Stati Uniti potesse accadere qualcosa di simile alla vicenda Alitalia, così come nessun italiano catastrofista scommetterebbe mai che in Italia si possa lasciare fallire una banca. Un cinese non avrebbe sorprese da tali comportamenti, un africano la chiamerebbe corruzione. Se questa è globalizzazione, “quello che verrà domani non me lo ricordo”.
mercoledì 15 ottobre 2008
52ma puntata. Potere dei derivati
In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
mercoledì 8 ottobre 2008
51ma puntata. Errori marchiani nel settore calzaturiero
In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
Qualche imprenditore locale poco oculato sostiene che “la calzatura non è in difficoltà” e che “resta uno dei settori più invidiati in Italia” – magari circoscrivendo l’analisi territoriale esclusivamente al successo della propria realtà aziendale – ma come mai ben il 40% dei figli degli imprenditori calzaturieri non intendono assolutamente mettersi in gioco su questo settore economico?
In questi anni il sistema calzaturiero fermano si è affidato eccessivamente agli spiragli di quei pochi numeri positivi diffusi a ridosso di ogni manifestazione fieristica, ma ogni vecchio economista sa che “se li torturi abbastanza, i dati ti confesseranno quello che vuoi sapere”. In Emilia-Romagna dove i numeri sono davvero positivi – reddito pro-capite più alto e grado di diseguaglianza più basso in Italia, alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, 45% di imprese che investono in R&S, etc - ci si interroga su quale ruolo strategico abbiano produzioni come la meccanica in un mondo che cambia progressivamente la propria divisione internazionale del lavoro e percorre la strada dei servizi avanzati dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle energie alternative, etc. Nel nostro territorio, invece, da un decennio “si tira per la giacchetta” la calzatura che per fortuna di tutti ha fatto il suo corso, ma a cui purtroppo non si è saputo dare un futuro perché il terrore per la Cindia ha avuto la meglio sulla creazione di centri direzionali, sullo sviluppo di politiche cooperative, sull’ideazione di un sistema di riqualificazione professionale e di trasferimento della conoscenza applicata alla calzatura.
Secondo una ricerca dell’Università Politecnica delle Marche circa il 40% dei figli delle aziende dell’area “scarponia” hanno interessi lavorativi diversi dai propri padri. La stessa percentuale evidenzia un problema tutto italiano di passaggio generazionale, ma ad esempio è di gran lunga superiore al 12% dell’area “merlonia”.
Sono tre gli errori marchiani commessi a livello politico, imprenditoriale e sindacale che hanno reso il settore calzaturiero fermano-maceratese uno dei meno appetibili soprattutto per i giovani.
Il primo riguarda l’assetto e la dimensione d’impresa, troppo piccola e troppo poco valorizzante i talenti di un nuovo arrivato. Negli anni ’90 le imprese non hanno approfittato della crescita realizzata per trasformarsi e affrontare un problema di nanismo culturale ancor prima di quello dimensionale. Oggi, nelle fabbriche è evidente la netta separazione tra la struttura produttiva e quella decisionale, tra il capannone e l’ufficio. Inoltre, nel capannone non si sono valorizzate le maestranze, nell’ufficio tutte le funzioni sono rimaste in capo all’imprenditore che non ha saputo assorbire validi collaboratori provenienti dal mondo universitario (il che avrebbe significato poter contare su dei potenziali dirigenti d’azienda diversi dai propri figli).
Il secondo errore concerne l’incapacità di tradurre in pratica le forme di investimento in capitale umano, maestranze e quadri d’azienda, diverse dal mero incentivo monetario (molto spesso risultano migliori gli incentivi legati alla creazione di un ambiente di lavoro di stima e fiducia reciproca). Le imprese non hanno mai investito in capitale umano perché non hanno capito che nell’epoca attuale del post-fordismo e della società della conoscenza il lavoro creativo e specializzato conta più della macchina e del capitale. Investire nelle persone, non vuol dire creare asili nido, mense e palestre, ma rendere il lavoratore partecipe del gioco economico, costruire un ambiente di lavoro decente, riuscire ad estrapolare la creatività dell’ultimo arrivato, smobilizzare la conoscenza tacita di ciascun lavoratore, ovvero non rivelata perché legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto.
Il terzo errore, conseguenza diretta dei primi due, è stato di non aver potuto recepire i vantaggi derivanti dall’apertura dei mercati. È evidente, infatti, che il non aver rafforzato il sistema delle relazioni industriali sul territorio, il non aver creato una solida struttura di impresa e una specializzazione del lavoro creativa e flessibile ha fatto sì che il gioco della globalizzazione ha migliorato solo la condizione di benessere dei lavoratori qualificati peggiorando, al contempo, quella dei lavoratori poco qualificati e che soffrono l’invecchiamento tecnologico.
Essere ottimisti per partito presto può servire a poco se nella nuova provincia non condividiamo la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.
In questi anni il sistema calzaturiero fermano si è affidato eccessivamente agli spiragli di quei pochi numeri positivi diffusi a ridosso di ogni manifestazione fieristica, ma ogni vecchio economista sa che “se li torturi abbastanza, i dati ti confesseranno quello che vuoi sapere”. In Emilia-Romagna dove i numeri sono davvero positivi – reddito pro-capite più alto e grado di diseguaglianza più basso in Italia, alto tasso di partecipazione femminile al lavoro, 45% di imprese che investono in R&S, etc - ci si interroga su quale ruolo strategico abbiano produzioni come la meccanica in un mondo che cambia progressivamente la propria divisione internazionale del lavoro e percorre la strada dei servizi avanzati dell’elettronica, delle telecomunicazioni, delle energie alternative, etc. Nel nostro territorio, invece, da un decennio “si tira per la giacchetta” la calzatura che per fortuna di tutti ha fatto il suo corso, ma a cui purtroppo non si è saputo dare un futuro perché il terrore per la Cindia ha avuto la meglio sulla creazione di centri direzionali, sullo sviluppo di politiche cooperative, sull’ideazione di un sistema di riqualificazione professionale e di trasferimento della conoscenza applicata alla calzatura.
Secondo una ricerca dell’Università Politecnica delle Marche circa il 40% dei figli delle aziende dell’area “scarponia” hanno interessi lavorativi diversi dai propri padri. La stessa percentuale evidenzia un problema tutto italiano di passaggio generazionale, ma ad esempio è di gran lunga superiore al 12% dell’area “merlonia”.
Sono tre gli errori marchiani commessi a livello politico, imprenditoriale e sindacale che hanno reso il settore calzaturiero fermano-maceratese uno dei meno appetibili soprattutto per i giovani.
Il primo riguarda l’assetto e la dimensione d’impresa, troppo piccola e troppo poco valorizzante i talenti di un nuovo arrivato. Negli anni ’90 le imprese non hanno approfittato della crescita realizzata per trasformarsi e affrontare un problema di nanismo culturale ancor prima di quello dimensionale. Oggi, nelle fabbriche è evidente la netta separazione tra la struttura produttiva e quella decisionale, tra il capannone e l’ufficio. Inoltre, nel capannone non si sono valorizzate le maestranze, nell’ufficio tutte le funzioni sono rimaste in capo all’imprenditore che non ha saputo assorbire validi collaboratori provenienti dal mondo universitario (il che avrebbe significato poter contare su dei potenziali dirigenti d’azienda diversi dai propri figli).
Il secondo errore concerne l’incapacità di tradurre in pratica le forme di investimento in capitale umano, maestranze e quadri d’azienda, diverse dal mero incentivo monetario (molto spesso risultano migliori gli incentivi legati alla creazione di un ambiente di lavoro di stima e fiducia reciproca). Le imprese non hanno mai investito in capitale umano perché non hanno capito che nell’epoca attuale del post-fordismo e della società della conoscenza il lavoro creativo e specializzato conta più della macchina e del capitale. Investire nelle persone, non vuol dire creare asili nido, mense e palestre, ma rendere il lavoratore partecipe del gioco economico, costruire un ambiente di lavoro decente, riuscire ad estrapolare la creatività dell’ultimo arrivato, smobilizzare la conoscenza tacita di ciascun lavoratore, ovvero non rivelata perché legata alle capacità intrinseche della persona e a quel saper fare operativo che si manifesta solo quando viene messo in atto.
Il terzo errore, conseguenza diretta dei primi due, è stato di non aver potuto recepire i vantaggi derivanti dall’apertura dei mercati. È evidente, infatti, che il non aver rafforzato il sistema delle relazioni industriali sul territorio, il non aver creato una solida struttura di impresa e una specializzazione del lavoro creativa e flessibile ha fatto sì che il gioco della globalizzazione ha migliorato solo la condizione di benessere dei lavoratori qualificati peggiorando, al contempo, quella dei lavoratori poco qualificati e che soffrono l’invecchiamento tecnologico.
Essere ottimisti per partito presto può servire a poco se nella nuova provincia non condividiamo la responsabilità precisa di non incantarci al benessere che si è vissuto sino ad ora perché la via per raggiungere il sogno della ricchezza è stata lunga, quella per l’incubo della povertà potrebbe essere davvero breve.
mercoledì 1 ottobre 2008
50ma puntata. Crack della fiducia e dell'onestà
In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.
“Con la finanza, tu puoi cambiare il mondo” è lo slogan della nota società di consulenza McKinsey per reclutare una miriade di giovani laureati costretti a mettere in un cassetto i due insegnamenti più importanti ricevuti dallo studio della finanza “utile” per l’economia reale: il primo è che non esistono pasti gratis in finanza, il secondo è che il valore si crea solo sul lato delle attività – organizzando lavoro, beni e conoscenza – e non sul lato delle passività.
E in effetti questa finanza ha avvelenato l’epicentro finanziario, gli Stati Uniti, ormai contaminato da quattro eccessi: quello dei debiti delle famiglie arrivati a toccare punte del 131% del reddito disponibile; quello delle speculazioni finanziarie attraverso l’esposizione su strumenti derivati senza finalità di copertura dal rischio (se sono un produttore di pasta è auspicabile contrarre un future che mi garantisca l’acquisto di grano a un prezzo fissato oggi, se sono un risparmiatore l’acquisto dello stesso prodotto derivato costituisce un aumento del livello di rischio e di potenzialità di guadagno) e soprattutto la diffusione della tecnica dello short selling (possibilità di vendere titoli non in possesso, se si ritiene che il prezzo scenderà, con l’obbligo di acquistare titoli e consegnarli al compratore entro una certa scadenza); quello della cartolarizzazione dei prestiti che ha consentito alle banche erogatrici di creare pericolosi cocktail finanziari e di spalmare il rischio ad altri soggetti sparsi in tutto il mondo, con la collaborazione delle agenzie di rating e di alcune modalità discutibili quanto a trasparenza sul mercato; quello dei bassi tassi di interesse che, in questi anni di politica monetaria accomodante nei confronti delle scelte governative, ha spinto cittadini a compiere arrischiate operazioni di indebitamento e di rincorsa della bolla immobiliare nell’incantesimo di un costo del denaro reale (tasso nominale meno l’inflazione) nullo o addirittura negativo.
La crisi finanziaria di oggi nasce da un catastrofico crollo di fiducia nei confronti di banche, autorità e leader politici. Perché questa crisi non è figlia di una depressione reale preesistente o di un ineluttabile andamento ciclico della finanza, ma di gravi errori commessi da chi in questi stessi giorni intende far credere ai mercati di tutto il mondo che c’è un modo per curare questa crisi finanziaria. A tal proposito le parole di John Lanchster, figlio di un banchiere della city, sono illuminanti: «fin da piccolo sento parlare di questa bestia mitologica chiamata “panico bancario”. Se ne parlava spesso, ma nessuno l’aveva mai visto. Si dice che i banchieri ne siano terrorizzati, anche se mio padre ne parlava con una specie di perverso senso dell’umorismo. Era sempre il segno che qualcuno aveva fatto una cazzata e bella grossa. E a volta era anche il segno che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel sistema finanziario».
E in effetti questa finanza ha avvelenato l’epicentro finanziario, gli Stati Uniti, ormai contaminato da quattro eccessi: quello dei debiti delle famiglie arrivati a toccare punte del 131% del reddito disponibile; quello delle speculazioni finanziarie attraverso l’esposizione su strumenti derivati senza finalità di copertura dal rischio (se sono un produttore di pasta è auspicabile contrarre un future che mi garantisca l’acquisto di grano a un prezzo fissato oggi, se sono un risparmiatore l’acquisto dello stesso prodotto derivato costituisce un aumento del livello di rischio e di potenzialità di guadagno) e soprattutto la diffusione della tecnica dello short selling (possibilità di vendere titoli non in possesso, se si ritiene che il prezzo scenderà, con l’obbligo di acquistare titoli e consegnarli al compratore entro una certa scadenza); quello della cartolarizzazione dei prestiti che ha consentito alle banche erogatrici di creare pericolosi cocktail finanziari e di spalmare il rischio ad altri soggetti sparsi in tutto il mondo, con la collaborazione delle agenzie di rating e di alcune modalità discutibili quanto a trasparenza sul mercato; quello dei bassi tassi di interesse che, in questi anni di politica monetaria accomodante nei confronti delle scelte governative, ha spinto cittadini a compiere arrischiate operazioni di indebitamento e di rincorsa della bolla immobiliare nell’incantesimo di un costo del denaro reale (tasso nominale meno l’inflazione) nullo o addirittura negativo.
La crisi finanziaria di oggi nasce da un catastrofico crollo di fiducia nei confronti di banche, autorità e leader politici. Perché questa crisi non è figlia di una depressione reale preesistente o di un ineluttabile andamento ciclico della finanza, ma di gravi errori commessi da chi in questi stessi giorni intende far credere ai mercati di tutto il mondo che c’è un modo per curare questa crisi finanziaria. A tal proposito le parole di John Lanchster, figlio di un banchiere della city, sono illuminanti: «fin da piccolo sento parlare di questa bestia mitologica chiamata “panico bancario”. Se ne parlava spesso, ma nessuno l’aveva mai visto. Si dice che i banchieri ne siano terrorizzati, anche se mio padre ne parlava con una specie di perverso senso dell’umorismo. Era sempre il segno che qualcuno aveva fatto una cazzata e bella grossa. E a volta era anche il segno che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel sistema finanziario».
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