mercoledì 28 gennaio 2009

68ma puntata. "Maastricht ambientale"

In attesa dell'ultimazione del nuovo sito web, la registrazione audio di questa puntata non sarà per il momento disponibile.

C’è chi parla di pacchetto su clima ed energia, chi di intesa sull’ambiente, chi di compromesso sull’economia verde. Ma quello approvato il 17 dicembre scorso dal Parlamento Europeo è o no un vero e proprio trattato ambientale alla “Maastricht”? Così come le regole stabilite dal trattato di Maastricht potrebbero diventare banali e costose formule politiche durante i periodi di burrasca economica, anche la formula commerciale “20-20-20” sull’ambiente e l’energia rischia di diventare una velleità soprattutto quando è ormai riconosciuto dai tecnici che l’Italia non riuscirà a portare a termine gli impegni presi (primo tra tutti ridurre del 6,5% le emissioni di gas serra entro il 2012) e che il costo per raggiungerli sarebbe pari a quattro volte le risorse stanziate dal Governo per le famiglie in difficoltà (circa 4 miliardi) o due volte la cifra richiesta in queste settimane da Confindustria per non chiudere i principali cantieri delle opere pubbliche infrastrutturali (circa 8 miliardi).
Non occorre schierarsi dalla parte degli ambientalisti o degli scettici per capire che è necessario svincolarsi progressivamente dall’uso dei combustibili fossili e ottenere energia da altre fonti. Non solo per ragioni equitative (nei confronti delle generazioni future), ma anche economiche (l’ambiente può trasformarsi in un vero e proprio comparto industriale) e sociali (solo con un diverso schema di sfruttamento delle risorse energetiche i 2,7 miliardi di persone, attualmente sprovvisti di energia elettrica, potranno aumentare la qualità della vita). Se il “dove arrivare” è abbastanza condiviso, è possibile entrare nel merito del “come arrivarci” deciso il mese scorso a Bruxelles. Come è noto, il pacchetto “20-20-20” si basa su uno sforzo comune, e nello stesso tempo differenziato per Paesi, su tre linee di azione con obiettivi quantitativi.
Il primo attiene all’efficienza energetica e l’impegno è quello di ridurre del 20% i consumi di energia entro il 2020. Tutti i documenti presentati dall’Unione Europea sostengono che l’aumento di efficienza possibile è anche superiore al 20% e che il raggiungimento di tale obiettivo non comporta un aumento dei costi totali di fornitura dei servizi energetici. Basta però pensare che nel nostro Paese circa il 65% dei consumi dell’energia riguardano il settore industriale per sollevare alcune perplessità: quali imprese, dopo 18 mesi di crisi, accetterebbero di investire di più oggi per risparmiare nell’acquisto dell’energia domani? Quali imprese accetterebbero di sostituire degli impianti non efficienti, ma non ancora obsoleti, se non hanno nulla da guadagnarci?
Il secondo obiettivo prevede di aumentare il contributo delle fonti rinnovabili al 20% dei consumi finali nel 2020. La discussione su questo punto tra i vari Paesi europei è stata vivace e ne è scaturito il punto debole: nella ripartizione dell’obiettivo ciascun Stato membro mette in luce i maggiori costi che sosterrebbero in dodici anni per raggiungerlo; tali costi dipendono tecnicamente dalla diverse curve di offerta di energia rinnovabile che ciascun Paese è in grado di implementare, ma pochi Paesi conoscono davvero bene questa curva e soprattutto gli ostacoli di natura extra-economica per attuarla. L’Italia ha ottenuto un obiettivo inferiore a quello medio europeo e precisamente pari al 17%. In molti non hanno accettato l’idea del ribasso italiano su un obiettivo socialmente desiderabile, ma è da sottolineare come il consumatore italiano ha già speso molto per l’elettricità da fonti rinnovabili (e assimilate) con uno sviluppo di tale industria di gran lunga inferiore alla Danimarca, Germania o Spagna.
Il terzo obiettivo, infine, consiste nel ridurre del 20% le emissioni dei gas inquinanti, il più noto fra tutti è la Co2. Anche in questo caso l’obiettivo quantitativo andrebbe fissato in base alle curve dei costi marginali di riduzione delle emissioni di ciascun Paese, ma nessuno le conosce bene. Cercare di ottenere un obbligo di riduzione minore possibile non vuol dire sminuire l’obiettivo, ma semplicemente salvaguardare le tasche dei cittadini per incorrere il meno possibile nel rischio di vedersi comminate delle sanzioni pecuniarie alla “Maastricht” a causa del mancato rispetto dei vincoli. Il compromesso raggiunto ha portato a quantificare la riduzione al 2020 nel 21% delle emissioni effettive del 2005. Obiettivo, secondo molti studiosi, non alla nostra portata che probabilmente verrà rivisto nella verifica di marzo 2010, sotto l’egida dell’Onu e dopo la Conferenza di Copenhagen, alla luce degli impegni di Usa, Cina e India.

mercoledì 21 gennaio 2009

67ma puntata. Problemi strutturali dimenticati

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L’aggrovigliarsi di fattori congiunturali e strutturali rende molto difficile mettere a fuoco dove e come mettere le mani sulla nostra economia. L’impressione è che lo scossone finanziario partito nell’estate 2007 negli Stati Uniti – che negli ultimi mesi sta colpendo le scelte di consumo, investimento e produzione degli attori economici italiani – e il normale andamento ciclico dell’economia – che si sarebbe manifestato a prescindere da eventi esogeni – abbiano nascosto i veri e annosi problemi di struttura dell’economia italiana e locale.
Uno dei più emergenti riguarda il calo drastico della propensione al rischio e alle scelte, ma soprattutto al cambiamento in ogni area semantica della società odierna. Tra le tante concause si può annoverare una sfiducia sempre crescente tra le varie generazioni successive: i padri non hanno più fiducia nei figli a cui ad esempio faticano a lasciare gradualmente il controllo delle decisioni aziendali, i figli al contrario non sono più interessati a dare un seguito alle attività dei propri padri e non accettano di instaurare con loro qualsiasi tipo di relazione di lavoro.
Il secondo problema strutturale ha a che fare con il nanismo culturale, prima ancora che dimensionale, delle imprese italiane. Un’impresa di piccole dimensioni, certamente, non riesce a ottenere economie di scala (risparmio dei costi tout court), a penetrare sui mercati esteri e a implementare nuovi modelli organizzativi e tecnologici. Ma, altrettanto, un’impresa culturalmente arretrata non attrae talenti e non trattiene quelli presenti, non incoraggia un sistema di produttività basato sulle motivazioni intrinseche (oltre che sugli incentivi monetari) e sul know why della persona (oltre che sul know how), e infine non riesce a costruire un nuovo sistema di relazioni industriali a rete e far parte di un network.
Un’altra crepa nella struttura economica della società postmoderna concerne l’irrisolta questione della precarietà che, tra i tanti effetti umani e sociali, produce una situazione economica non in grado di attivare il risparmio privato. Non a caso, dopo 18 mesi di crisi, si può notare come i principali Paesi dell'Europa continentale hanno dimostrato maggiore capacità di resistenza grazie ai loro risparmi. Se nei Paesi anglosassoni il consumo toccava picchi del 131% sul reddito disponibile, in Italia e Germania si è avuta una maggiore tenuta sociale di fronte alla crisi finanziaria globale grazie alla minore quota di debito delle famiglie rispetto al reddito e grazie alla ricchezza pensionistica. L’allungamento dei tempi di permanenza in una dimensione di precarietà è stata resa possibile in Italia grazie all’accumulazione del risparmio privato da parte delle vecchie generazioni e dall’erosione da parte delle nuove. Tale situazione non è più economicamente, prima ancora che eticamente, sostenibile.
Inutile fare previsioni sui numeri che l’economia italiana farà registrare nel 2009, piuttosto è necessario ricostruire le condizioni strutturali per non trovarsi impreparati quando l’andamento ciclico dell’economia si invertirà. Dunque – è bene chiarirlo – l’economia degli anni a venire non dipenderà da quanto i modelli teorici siano in grado di prevedere il futuro, ma dalle scelte rischiose che i decisori politici, gli imprenditori e i banchieri prenderanno nel corso di questo anno per affrontare i problemi strutturali della nostra economia reale.

mercoledì 14 gennaio 2009

66ma puntata. Mattone incerto, dove rifugiarsi?

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Quello appena concluso è stato indubbiamente un anno molto difficile per il mercato immobiliare italiano. Sebbene i pochi dati a disposizione dicano che nel 2008 la crescita dei valori immobiliari sia frenata al +1,1%, il tentativo di nascondersi dietro ai numeri risulta palese. Basta prendere l’indicatore dei tempi medi di vendita delle abitazioni, utilizzato per valutare lo stato di dinamicità immobiliare di un territorio. Nel corso dell’anno appena trascorso questo indicatore si è dilatato oltre i 6 mesi in molte città italiane tra cui Venezia Mestre (6,9 mesi), Bologna (6,6 mesi) e Torino (6,1 mesi). E quanto più il tempo medio di vendita si allunga, tanto più significa che la liquidità si restringe, i soldi non circolano e non c'è più attrazione nell'investire nel real estate. Non solo, ma per il 2009 alcuni responsabili fidi di banche regionali hanno ricevuto l’ordine dalla direzione di chiudere i rubinetti del credito al residenziale perché considerato un settore troppo rischioso e se dovesse verificarsi questo approccio di non concedere mutui o affidamenti alle aziende immobiliari, anche sane, si verificherebbe in questo anno una fuga dal mattone reale da sempre considerato il bene rifugio per eccellenza in grado di raccogliere i disinvestimenti dal mercato finanziario.
Nell’ultimo decennio, infatti, in tutta Europa è fortemente rallentata la rincorsa all’investimento immobiliare diretto, ma l’impressione è che il crollo globale delle borse abbia tenuto su valori positivi le variazioni percentuali dell’immobiliare residenziale.
In Italia, negli ultimi trent’anni i valori immobiliari sono cresciuti del 135,2% e più della metà della crescita è stata registrata nel decennio d’oro 1997-2006 quando la borsa italiana aveva guadagnato il 179,7% nello stesso periodo – nonostante l’11 settembre, il crollo della new economy e i vari scandali finanziari Cirio e Parmalat. Fino ad oggi gli unici due cali dei prezzi medi correnti sono riconducibili agli anni 1983-1985 (-9,2%) e 1993-1995 (-0,5%). Nell’ultimo anno, invece, il calo del Mibtel del 49,64% potrebbe avere limitato il rallentamento del settore immobiliare (+1,1% nel 2008) perché la paura di rimanere intrappolati in borsa potrebbe avere spinto le famiglie italiane a restare più liquide o a trasferire parte della liquidità all’immobiliare residenziale.
Tra i Paesi europei con un mercato immobiliare effervescente troviamo la Spagna e il Regno Unito. Dai dati aggiornati al terzo trimestre 2008, negli ultimi dieci anni il mercato immobiliare residenziale è cresciuto rispettivamente del 171,59% e del 148,91% in termini nominali. Nello stesso periodo a Madrid l’Ibex 35 è diminuito del 13,2% e Londra ha fatto registrare un –29,6% del Ftse 100 (da sottolineare che i due cali di borsa sono pesantemente influenzati dal crollo globale degli ultimi diciotto mesi). Se alcuni analisti sostenevano che nell’ultimo anno in Spagna – così come nei Paesi Bassi – i prezzi immobiliari dovessero piombare verso il basso, i dati mostrano come invece il prezzo medio corrente delle case è rimasto praticamente invariato (+0,39%) proprio mentre la borsa è crollata del 42,76%.
Anche le borse asiatiche hanno vissuto nell’ultimo anno un tracollo dei prezzi, ma la frenata sugli investimenti immobiliari diretti risulta meno spiccata rispetto al resto del mondo. Nel decennio alle spalle i prezzi immobiliari residenziali della Repubblica di Singapore sono cresciuti del 59,18% e nell’ultimo anno la variazioni dei prezzi nominali delle case della città-stato del sud-est asiatico resta comunque positiva (+8,94%), favorita anche dallo scarso appeal della borsa che negli ultimi dodici mesi ha fatto registrare un calo del 50,63% dello Straits Times Index. Anche Hong Kong ha visto l’indice Hang Seng lasciare sul terreno il 48,24%, ma il corso dei prezzi immobiliari sembra avere avuto in termini nominali un ritmo meno fibrillante (+22,54% a dieci anni e +14,62% a dodici mesi). Diverso è, infine, il caso del Giappone immerso in un clima recessivo prima ancora che la crisi finanziaria si manifestasse in tutto il mondo. A guardare i dati sul Giappone l’appellativo di “Paese del Sol Levante” sembra il meno appropriato essendo l’unico, insieme all’Indonesia, ad avere registrato negli ultimi dieci anni una diminuzione del 31,74% dei prezzi nominali immobiliari. Nell’ultimo anno, la caduta dell’indice Nikkei 225 (-47,28%) sembra avere avuto poca influenza sulle negoziazioni e sui prezzi delle case (-0,68%), dato che nel paese persiste da anni la mancanza di fiducia verso il futuro.

mercoledì 7 gennaio 2009

65ma puntata. L'anno che verrà

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