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C’è chi parla di pacchetto su clima ed energia, chi di intesa sull’ambiente, chi di compromesso sull’economia verde. Ma quello approvato il 17 dicembre scorso dal Parlamento Europeo è o no un vero e proprio trattato ambientale alla “Maastricht”? Così come le regole stabilite dal trattato di Maastricht potrebbero diventare banali e costose formule politiche durante i periodi di burrasca economica, anche la formula commerciale “20-20-20” sull’ambiente e l’energia rischia di diventare una velleità soprattutto quando è ormai riconosciuto dai tecnici che l’Italia non riuscirà a portare a termine gli impegni presi (primo tra tutti ridurre del 6,5% le emissioni di gas serra entro il 2012) e che il costo per raggiungerli sarebbe pari a quattro volte le risorse stanziate dal Governo per le famiglie in difficoltà (circa 4 miliardi) o due volte la cifra richiesta in queste settimane da Confindustria per non chiudere i principali cantieri delle opere pubbliche infrastrutturali (circa 8 miliardi).
Non occorre schierarsi dalla parte degli ambientalisti o degli scettici per capire che è necessario svincolarsi progressivamente dall’uso dei combustibili fossili e ottenere energia da altre fonti. Non solo per ragioni equitative (nei confronti delle generazioni future), ma anche economiche (l’ambiente può trasformarsi in un vero e proprio comparto industriale) e sociali (solo con un diverso schema di sfruttamento delle risorse energetiche i 2,7 miliardi di persone, attualmente sprovvisti di energia elettrica, potranno aumentare la qualità della vita). Se il “dove arrivare” è abbastanza condiviso, è possibile entrare nel merito del “come arrivarci” deciso il mese scorso a Bruxelles. Come è noto, il pacchetto “20-20-20” si basa su uno sforzo comune, e nello stesso tempo differenziato per Paesi, su tre linee di azione con obiettivi quantitativi.
Il primo attiene all’efficienza energetica e l’impegno è quello di ridurre del 20% i consumi di energia entro il 2020. Tutti i documenti presentati dall’Unione Europea sostengono che l’aumento di efficienza possibile è anche superiore al 20% e che il raggiungimento di tale obiettivo non comporta un aumento dei costi totali di fornitura dei servizi energetici. Basta però pensare che nel nostro Paese circa il 65% dei consumi dell’energia riguardano il settore industriale per sollevare alcune perplessità: quali imprese, dopo 18 mesi di crisi, accetterebbero di investire di più oggi per risparmiare nell’acquisto dell’energia domani? Quali imprese accetterebbero di sostituire degli impianti non efficienti, ma non ancora obsoleti, se non hanno nulla da guadagnarci?
Il secondo obiettivo prevede di aumentare il contributo delle fonti rinnovabili al 20% dei consumi finali nel 2020. La discussione su questo punto tra i vari Paesi europei è stata vivace e ne è scaturito il punto debole: nella ripartizione dell’obiettivo ciascun Stato membro mette in luce i maggiori costi che sosterrebbero in dodici anni per raggiungerlo; tali costi dipendono tecnicamente dalla diverse curve di offerta di energia rinnovabile che ciascun Paese è in grado di implementare, ma pochi Paesi conoscono davvero bene questa curva e soprattutto gli ostacoli di natura extra-economica per attuarla. L’Italia ha ottenuto un obiettivo inferiore a quello medio europeo e precisamente pari al 17%. In molti non hanno accettato l’idea del ribasso italiano su un obiettivo socialmente desiderabile, ma è da sottolineare come il consumatore italiano ha già speso molto per l’elettricità da fonti rinnovabili (e assimilate) con uno sviluppo di tale industria di gran lunga inferiore alla Danimarca, Germania o Spagna.
Il terzo obiettivo, infine, consiste nel ridurre del 20% le emissioni dei gas inquinanti, il più noto fra tutti è la Co2. Anche in questo caso l’obiettivo quantitativo andrebbe fissato in base alle curve dei costi marginali di riduzione delle emissioni di ciascun Paese, ma nessuno le conosce bene. Cercare di ottenere un obbligo di riduzione minore possibile non vuol dire sminuire l’obiettivo, ma semplicemente salvaguardare le tasche dei cittadini per incorrere il meno possibile nel rischio di vedersi comminate delle sanzioni pecuniarie alla “Maastricht” a causa del mancato rispetto dei vincoli. Il compromesso raggiunto ha portato a quantificare la riduzione al 2020 nel 21% delle emissioni effettive del 2005. Obiettivo, secondo molti studiosi, non alla nostra portata che probabilmente verrà rivisto nella verifica di marzo 2010, sotto l’egida dell’Onu e dopo la Conferenza di Copenhagen, alla luce degli impegni di Usa, Cina e India.