mercoledì 18 novembre 2009

96.ma puntata. A che punto è la notte?




L’ansia di ripresa sta provocando sul piano mediatico una guerra di numeri che può per esempio dare l’Italia alla fine del tunnel quando viene comunicato il rallentamento della richiesta della cassa integrazione, ma che la danno nuovamente in crisi già il giorno successivo quando viene reso noto l’impatto catastrofico sull’occupazione e sui conti pubblici già dal 2010. La crisi finirà quando il Paese tornerà sui livelli di investimenti, disoccupazione e debito pubblico fatti registrare prima della crisi: secondo alcune stime Nomisma se dal prossimo anno cominciamo a crescere dell’1% ci impiegheremo 7 anni.
La politica economica accomodante, l’innovazione finanziaria esasperata, gli squilibri strutturali internazionali e l’assenza dei controlli sono certamente i motivi generanti di questa crisi così virulenta. Tuttavia però non bisogna essere così ingenui dal pensare che lo scoppio dei mutui subprime costituisca la cause ultima o profonda della crisi, che magari sarebbe potuta scoppiare a causa di un rifiuto da parte del governo cinese di finanziare le partite correnti e il debito pubblico statunitensi. Questa crisi trae, dunque, origine da alcune cesure create dal pensiero economico dominante negli ultimi trent’anni: separazione tra l’economico e il sociale; separazione tra il lavoro e la ricchezza; separazione tra produzione e finanza; e infine separazione tra mercato e democrazia. Il tutto al servizio di una crescita che sembrava dovesse essere infinita e che invece ha condannato il mondo intero a un’epidemia.
La risposta immediata è stata quella di costruire facili moralismi, una strada che non sta portando da nessuna parte. L’elezione di Obama ha rafforzato l’idea che si potesse uscire dalla crisi con la green economy, ma quali risultati ha portato gli ingenti investimenti pubblici sull’ambiente e sui nuovi assetti energetici? In Italia, negli ultimi mesi pare sia molto di moda il social housing, per cui il Governo sembra avere creato, attraverso il cosiddetto “piano casa 2”, un sistema di iniziative locali che convoglierà nell’edilizia sociale circa 5 miliardi di euro di capitali di rischio. Risposte comunque utili, ma non adeguate a modificare quel paradigma socio-economico che ha creato una perdita di senso in alcuni pezzi della società, tra cui quello economico e finanziario. È urgente un salto culturale: passare da un’economia capitalistica a un’economia civile, da un’economia del capitale a un’economia della città, da un’economia dei capitalisti (che sono solo una fetta dei cittadini) a un’economia dei cittadini tutti.

mercoledì 4 novembre 2009

95ma puntata. Dalla green economy al social housing?


Dopo la green economy a stelle e strisce, il nuovo sogno per superare la crisi si chiama social housing. Se si può fare business sull’ambiente, perché non farlo sul sociale e sulla difficoltà di accedere alla casa?
Da un lato, sebbene ci sia un 77% di famiglie con una casa di proprietà, sono in aumento quelle categorie di famiglie (anziani in condizioni svantaggiate, giovani coppie, immigrati regolari a basso reddito) non eccessivamente povere da rientrare nelle graduatorie per il fondo sociale per l’affitto o per un alloggio pubblico, e non sufficientemente ricche per potersi permettere l’acquisto di una nuova casa o l’accesso al mercato libero delle locazioni (considerato che dal 2000 la dinamica dei salari è rimasta ferma, mentre quella dei valori immobiliari e dei canoni non si è mai arrestata). Dall’altro lato, però, nonostante questo problema sia reale e urgente, il sistema dei fondi immobiliari pensato dal Governo nel piano di edilizia sociale (cosiddetto piano casa 2) necessita di due premesse rischiose per far sì che tutti i soggetti possano remunerare i capitali di rischio messi a diposizione dalle fondazioni e dai costruttori: i Comuni devono apportare al fondo le aree da edificare a un costo simbolico più che di mercato, con il rischio di una velata dismissione pubblica forzosa; e soprattutto si dovrà permettere, alla scadenza del fondo, di cedere sul mercato le nuove abitazioni costruite dopo massimo 15-20 altrimenti, il che creerà dei rischi sul lato dell’offerta immobiliare in un contesto in cui il rapporto tra abitazioni e famiglie si attesta già oggi a 1,3.