mercoledì 29 aprile 2009

80ma puntata. A braccia conserte

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mercoledì 22 aprile 2009

79ma puntata. Povertà dei poveri e povertà dei ricchi

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venerdì 17 aprile 2009

78ma puntata. Chi può darci una "mano"?

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Per rilanciare i capitali collettivi di un territorio e mettere al centro i talenti migliori è necessario costruire delle politiche pubbliche nuove e orientate al medio termine, approfittando anche della fase appena aperta dal decentramento istituzionale che pone problemi ma anche opportunità. È questo il messaggio dell’interessante tavola rotonda “L’altra mano per lo sviluppo: costruire nuove politiche pubbliche”, tenutasi a Senigallia lo scorso 15 aprile nell’ambito del percorso congressuale di Cisl Marche, in cui hanno preso la parola Carlo Carboni (sociologo dell’Università Politecnica delle Marche), Giuliano Bianchi (presidente di Unioncamere Marche) e Paolo Petrini (Vice Presidente della Giunta Regione Marche).
Se da un lato è evidente che l’attenzione degli economisti si è sempre più spostata verso i fattori immateriali della crescita e che il capitale fisico non è una condizione sufficiente allo sviluppo, dall’altro risulta complesso definire politiche pubbliche locali condivise con tutti gli attori dello sviluppo, libere da qualsiasi condizionamento di breve termine (competizioni elettorali) e soprattutto efficaci nell’accrescere quei capitali (economico, intellettuale, sociale, culturale, istituzionale) in grado di rischiare davvero lo sviluppo di un territorio inteso come crescita compatibile con gli obiettivi economici, ambientali e sociali.
L’impressione è che nelle Marche molto sia stato fatto, ma è fuor di dubbio che alcune politiche non hanno sortito gli effetti desiderati. Solo per fare alcuni esempi, recentemente Banca d’Italia ha decretato come “inefficaci” le politiche industriali attuate nell’ultimo decennio in Italia e, in particolare, nelle regioni ad alta vocazione manifatturiera come le Marche; sono gli scarsi investimenti di private equity nelle piccole e medie imprese della regione (5 milioni di euro nel 2008 contro i 60 milioni dell’Umbria e i 70 della Toscana) a ricordare che c’è stata poca attenzione alle condizioni socio-economiche territoriali che migliorano il livello di attrazione degli investitori istituzionali; e infine la bassa incisività del Piano Energetico Ambientale Regionale (Pear), nonostante fosse stato uno dei primi approvati in Italia, fa essere questa regione ancora il fanalino di coda del Centro-Nord nelle pratiche di risparmio energetico e nello sfruttamento delle fonti rinnovabili. È lo stesso segretario generale regionale Stefano Mastrovincenzo, nella sua relazione congressuale “Noi vivremo del lavoro”, a fare un lucido quadro sull’attuale stato di salute della regione Marche, «ieri la terra dello sviluppo senza fratture, oggi una regione in sospensione: la crisi sembra non farla precipitare ma nello stesso tempo viviamo la sensazione di andare giù. Restiamo una terra di marca – aggiunge poi il segretario Mastrovincenzo – una terra di confine, ma rischiamo di essere anche una terra di passaggio». Già più di due secoli fa era lo stesso Adam Smith ad insistere che un ordine sociale autenticamente liberale aveva bisogno di due mani per durare nel tempo: invisibile l’una – quella di cui tutti parlano spesso anche a sproposito per una carente capacità interpretativa – e visibile l’altra – quella dello Stato che deve intervenire in chiave sussidiaria, diremmo oggi, tutte le volte in cui l’operare della mano invisibile rischia di condurre verso il monopolio o l’oligarchia degli interessi economici. Non si tratta di discutere sul “che cosa fare” per il rilancio della società marchigiana, piuttosto sul “chi lo fa” e sul “come farlo” si gioca la sfida futura. Fino ad oggi siamo rimasti incantati sulla ricchezza accumulata dalle Marche con gran fatica e per lungo tempo, lo sviluppo di domani può essere attuato solo disegnando un efficace modello di governance multilivello aperto però ai valori della cooperazione fra i diversi livelli amministrativi (Regioni, Comuni, Province, Unione dei Comuni, etc) e a quelli del rischio e della responsabilità collettiva.

giovedì 9 aprile 2009

77ma puntata. Fondi sovrani: sciacalli o redentori?

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Qualche osservatore economico, specie in Italia, paventa l’idea che anche i fondi sovrani con ben 3,2 trilioni di dollari pronti all’uso siano entrati profondamente in crisi tale da mettere a repentaglio tutte quelle risorse finanziarie millantate dai governi occidentali – dato che la trasparenza non è nelle abitudini dei fondi sovrani – a volte per tranquillizzare le borse su alcune discutibili operazioni di salvataggio e a volte invece per mettere in guardia contro eventuali atti di sciacallaggio da parte di questi fondi nei confronti di banche o imprese svalutate dalla crisi.
Primo, che cosa sono i fondi sovrani? Sono fondi di investimento di proprietà statale e utilizzano i loro surplus fiscali o commerciali per investire in strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, etc) denominati in valuta straniera. La caratteristica principale di questi fondi è di investire in un orizzonte temporale di lungo periodo e di andare alla ricerca di rendimenti elevati associati a un grado di rischio tollerante. Di solito originano in Paesi non democratici e il loro grado di trasparenza è inversamente proporzionale al livello di sviluppo istituzionale del Paese stesso. I primi dieci fondi sovrani al mondo hanno investito risorse pari al 2,5 mila miliardi di dollari, nel complesso si può stimare che tutti i fondi sovrani attivi al mondo provenienti per lo più dall’Asia e dal Medio Oriente arrivino a detenere complessivamente oltre il 3,2 mila miliardi di dollari. Tali risorse finanziarie risultano modeste se comparate a quelle del mondo bancario o assicurativo, ma sono concentrate in mano a circa 20 soggetti nel mondo che decidono le sorti delle economie occidentali spesso sulla base di accordi politici sottobanco.
Secondo, dopo avere investito massicciamente negli Stati Uniti e in Europa i fondi sovrani sono davvero in crisi? Nonostante le perdite subite a causa dei massicci ingressi nei colossi finanziari statunitensi – si può stimare ad esempio che dei 900 miliardi di dollari investiti il fondo sovrano di Abu Dabi ne abbia persi già un terzo con Citigroup – il calo del prezzo del petrolio da 147 dollari (luglio 2008) a 50 (aprile 2009) – che alimenta oltre il 60% delle riserve complessive di questi fondi – e il calo delle esportazioni cinesi – da cui origina un terzo delle riserve – il rapporto Preqin 2009 rivela come a livello aggregato gli investimenti dei fondi sovrani siano cresciuti del 60%, dai 2 trilioni di dollari del 2007 ai 3,2 trilioni ad oggi impiegati. Certamente i fondi stessi hanno risentito della forte turbolenza finanziaria internazionale accumulando considerevoli perdite dovute alla forti svalutazioni azionarie e obbligazionarie, tuttavia nel corso dei dodici mesi precedenti il numero di veicoli istituiti a livello statale non sono diminuiti. Facendo parlare i numeri, dunque, non è possibile parlare di crisi vera e propria per i fondi sovrani.
Infine, ma non per ultimo, quale sarà il loro ruolo nell’economia mondiale? Fino ad oggi la strada perseguita dai fondi sovrani è stata duplice: da un lato investire le risorse, spesso create in Paesi non democratici, a vantaggio dei Paesi sviluppati in cambio di protezioni (ad esempio militari soprattutto nel caso degli Stati Uniti); dall’altro confidare nella finanza come unico segmento di investimento capace di far registrare un ritorno in termini di plusvalenza molto elevato a prescindere dal rischio. Tutti i fondi sovrani hanno risentito favorevolmente di un approccio semi-liberista da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, solo in Francia e Germania è stato possibile apprezzare rispettivamente nel 2005 e nel 2008 una reazione legislativa per sottoporre ad autorizzazione del governo le acquisizioni da parte di investitori al di fuori dell’Europa che comportino un ingresso rilevante nei settori considerati sensibili a livello nazionale.
Il ruolo dei fondi sovrani sull’economia mondiale sta però cambiando enormemente. Le risorse finanziarie accumulate mediante contributi fiscali o pensionistici (caso Singapore e Norvegia) , petrolio o gas (caso Emirati Arabi e Russi), ed esportazioni (caso Cina) verranno destinate ai Paesi occidentali solo attraverso solidi progetti di investimento industriali a lungo termine. Inoltre, rispetto alle operazioni all’estero verranno maggiormente privilegiati gli investimenti domestici a sostegno delle opere infrastrutturali (nei paesi in via di sviluppo) e del rilancio dei settori produttivi (nei paesi considerati sviluppati). A tal proposito il governo francese ha istituito nell’ottobre 2008 un fondo sovrano strategico da 20 miliardi di euro per sostenere le imprese nazionali colpite dalla crisi mondiale e per proteggerle da eventuali atti di sciacallaggio. Un futuro da redentori?

mercoledì 1 aprile 2009

76ma puntata. Allarme giovani

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