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117ma puntata. Quali reti d'impresa per guardare al futuro
Prima della crisi il nanismo dimensionale delle imprese ha sicuramente costituito una barriera ai processi di innovazione e di ricerca di nuovi mercati; al contrario, dopo la crisi una dimensione d’impresa a misura di famiglia è stata la condizione di flessibilità per attutire i venti recessivi e la battuta d’arresto della domanda mondiale.
Da un lato chi ha evocato il ritorno urgente al “piccolo è bello” e al capitalismo molecolare, che però fatica ad affrontare i rischiosi percorsi di crescita perché intrappolato nei passaggi dell’impresa alle generazioni successive e nell’introduzione di nuovi prodotti sul mercato. Dall’altro lato, invece, chi ha sottolineato come un’esigua sottocapitalizzazione dell’impresa, specie nei periodi di stretta creditizia e di riduzione della leva finanziaria, sia l’ostacolo principale a quell’auspicabile aumento della quota di investimenti tangibili e intangibili che, insieme ad un’accurata strategia aziendale, riporterebbe il nostro tessuto industriale sui livelli di produttività e competitività alla pari degli altri Paesi europei presi come riferimento (Francia e Germania).
Una valutazione deve essere allora a questo punto condivisa: l’impresa non può restare piccola e isolata dal distretto di provenienza, deve raggiungere un’adeguata massa critica per potere fare innovazione e migliorare il proprio posizionamento sul mercato. Ma per fare questo è necessario incentivare, sia culturalmente che legislativamente, le imprese del territorio ad avviare dei percorsi di crescita più graduali rispetto a quelle patrimonializzazioni a volte “frettolose” – derivanti dalle fusioni e acquisizioni tout court, o magari dal conferimento di capitale proprio da parte dell’imprenditore di prima generazione – senza un obiettivo preciso, un management preparato e una tempistica definita.
Ormai da tempo si identifica nella “rete d’impresa” uno strumento a volte solo giuridico, altre volte anche economico-organizzativo, per superare la frammentarietà e il nanismo operativo e culturale del panorama imprenditoriale italiano. Quasi mai però, almeno fino ad oggi, le proposte messe in campo per la costituzione di una rete d’impresa hanno un’ottica di medio-lungo periodo, solide basi tecnico-finanziarie, un mandato netto ad un coordinamento manageriale e una strategia d’impresa condivisa. Inoltre, in molti casi le reti d’impresa hanno solo formalizzato delle relazioni industriali già esistenti all’interno di una filiera produttiva o creato coordinamenti aziendali di corto respiro e finalizzati a singoli progetti specifici nell’ambito di una tranche di finanziamento pubblico. In altri casi, l’obiettivo di creazione di una rete d’imprese è stato fin troppo interpretato sul piano materiale: aggregare più imprese possibili per far numero, ottenere economie di scala, risparmiare sui costi e fare quello che un’impresa piccola da sola non riesce a fare (andare nelle fiere, vendere meglio, raggiungere nuovi mercati, etc). Sicuramente una prima aggregazione “soft” delle imprese permetterebbe di poter partecipare a iniziative commerciali e di condividere alcuni investimenti che non sarebbero possibili alla singola impresa. Ma nell’era della conoscenza questo non basta, i beni intangibili (cultura aziendale, know-how, capitale umano, capacità di avere una mission e di mettere in campo una strategia d’impresa, etc) devono trovare uno spazio predominante e nelle reti d’impresa è necessario trovare la modalità di scambiarsi informazioni preziose e innovazioni incrementali. Non è solo un modo per crescere oggi, o domani quando le cose andranno meglio, ma una forma di copertura dal rischio di scomparire dal mercato al manifestarsi della prossima crisi economica.
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